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Fede, il quinto cerchio chiuso è l'elogio della femminilità

Ritratto di donna. Doveroso. Sentito. Sacrosanto. Per dirle grazie e chiederle scusa. Ritratto semplice di donna complicata e quindi ancora più femmina

Fede, il quinto cerchio chiuso è l'elogio della femminilità

Ritratto di donna. Doveroso. Sentito. Sacrosanto. Per dirle grazie e chiederle scusa. Ritratto semplice di donna complicata e quindi ancora più femmina. Ma non si dice, non si deve neppure pensare, come se questo termine perfetto finito nel vocabolario del silenzio fosse solo discriminante, riduttivo, dispregiativo e non avesse invece la capacità di sintetizzare forza e grandezza dell'altra metà del cielo. Fede è l'emblema di questa metà. Perché nel suo essere indispensabile allo sport, al Paese, a noi, non ha mai nascosto tenerezze e debolezze, angoli, spigoli e lame del suo carattere profondo; perché nulla è mai stato scontato nel suo modo di affrontare il mondo. Ritratto di una donna che gli uomini temono e amano senza avere mai la confidenza rozza di una battuta o allusione; lei bella, lei forte, lei testarda, carismatica, Divina la chiamano persino certamente sbagliando, però padrona di un fascino etereo che incanta, strega e divide sia maschi che femmine in eserciti contrapposti: di qua chi l'adora, di là chi la sopporta. Tutti però non potendo fare a meno di rispettarla. Per questo, assieme agli applausi per la sua quinta finale olimpica raggiunta, unica donna nel nuoto ad esserci riuscita, per questo le dobbiamo delle scuse. Perché per diciott'anni ha vinto e per diciott'anni ha resistito. Alle montagne russe della sua crescita e del mondo attorno che la rapiva di tentazioni e pretese senza mai veramente capirla. Guardiamo la piccola Benedetta Pilato, in questi giorni, era attesa ed era tante cose, è tornata in Italia senza nulla se non molte prime pagine con il viso tondo e dolce circondato da titoli tristi e di sconfitta, lasciamola stare, piccola.

Federica non l'abbiamo lasciata stare, è finita subito sulle montagne russe delle attese e le pressioni, su e giù, vertigini e mal di stomaco, sorrisi e lacrime, tanti dubbi e poche certezze, confusione, adolescenza vorticosa e disintegrata. Federica paure e aspirazioni che riguardano tutti, ritratto femminista e maschilista, buona e cattiva, forte e debole, tenera e agguerrita, lacrime e gelo, umorale e amorevole. Federica piena di successi, record, medaglie, cadute e resurrezioni che raccontano diciott'anni di vita a mille all'ora e di lezioni che questa veneta ostica e lavoratrice ha impartito a tutti semplicemente mostrando, senza smussare angoli, le proprie durezze e debolezze.

Questo rappresenta Federica, donna e femmina che l'Italia ha imparato a conoscere declinandola in tanti e troppi modi. La bambina prodigio prima di Atene 2004, la bambina d'argento durante Atene 2004, la bambina viziata e in crisi alle prime pressioni dopo Atene, la ragazzina che si chiude, si spegne, s'impaurisce e nessuno sa, comprende, tutti vedono solo brufoli, distanza, insofferenza, non quegli occhi tristi. Ragazzina sola a Milano, avanti e indietro, alloggio diviso in quattro, ascensore, fermata del metrò, furgoncino dell'allenatore e dritti in palestra, sola sola sempre sola, l'unica a capire è un'amica di stanza, prigioniera della passione e dell'allenamento come Fede, chiama la signora Pellegrini, dice «mangia e poi vomita tutto, Fede sta male, venga...». Viene. La porta via. «L'abbraccio a casa con mio padre fu come rinascere» ricorderà anni dopo, ormai declinata a Divina, rispettata e finalmente amata, un amore figlio dell'autorevolezza non dell'empatia. Ancora declinazioni. Ragazzina forte ma sotto esame, mondiali di Montreal 2005, ragazzina capricciosa prima durante e dopo, ragazzina che fa di nuovo argento, non vince, vogliamo di più urla il mondo attorno. Vincerà presto, e tanto, ora è una ragazza, stella di prima grandezza ai Giochi di Pechino però diavolo hai conquistato l'oro nei 200 ma sprechi nei 400, criticata nel trionfo, privilegio non richiesto appannaggio solo dei troppo grandi. Mondiali di Roma 2009, due ori e due record, non basta. Fede adesso è altre sfumature, è gossip, fidanzati, rivalità nate nell'acqua che diventano d'amore, divide, indispone, si protegge, gli appassionati si schierano, i critici si esaltano e stropicciano gli occhi quando rifiuta di fare la portabandiera a Londra 2012. Apriti cielo non si fa, come si permette? Tutti sordi, tutti ciechi, tutti incapaci di vedere che dietro quell'onore rimbalzato c'è un gesto di coraggiosa emancipazione e serietà: dire di no perché c'è un lavoro da portare a termine, sarà tra i primi a gareggiare il giorno dopo ai Giochi, non vuole pregiudicare la gara. È il no di una donna a un mondo di uomini che voleva decidere per lei e si attendeva un sì. Quattro anni dopo, a Rio, le offriranno di nuovo la bandiera, e stavolta accetterà, ultima declinazione, stavolta diplomatica. A questo punto manca solo un tassello: non è il mondiale vinto a Budapest nel 2017, non è quello meraviglioso di Gwanjiu 2019, non è l'esito della gara andata in scena questa notte a Tokyo, qualsiasi esso sia, è ciò che disse un inverno di cinque anni fa, dopo Rio, quando spiegò perché, pur essendo preparatissima, aveva mancato il podio in finale: «Per il ciclo, ho sbagliato tutto e non ho calcolato bene i tempi del mio ciclo».

Meravigliosamente donna nel raccontare ciò che il mondo maschio dello sport sa da sempre ma non considera mai: la gara nella gara, la sfida nella sfida che ogni atleta donna deve affrontare.

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