Cronache

Fiammetta Borsellino si racconta: "La mia vita all’Asinara e quella frase di Falcone..."

L'intervista alla figlia del giudice ucciso dalla mafia

Fiammetta Borsellino si racconta: "La mia vita all’Asinara e quella frase di Falcone..."

Arriva puntualissima Fiammetta Borsellino per l’incontro “Orizzonti di giustizia” con gli studenti dell’istituto “Giacomo Perlasca” di Idro, Brescia. Tappa di un tour per educare e sensibilizzare i più giovani a una vera cultura della legalità. Fiammetta Borsellino ha rilasciato molte interviste e partecipato a diversi incontri pubblici. Continua la sua battaglia per la verità sulla strage di via Mariano D’Amelio a Palermo in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A farli saltare in aria furono i corleonesi di Salvatore Riina, persi nella strategia terroristica di attacco frontale alle Istituzioni repubblicane. Non c’è stato da allora film, sceneggiato televisivo o ricostruzione sceneggiata che non abbiano messo al centro della vicenda di Paolo Borsellino anche e soprattutto il rapporto umano con l’adorata figlia Fiammetta, che all’epoca della strage mafiosa aveva 19 anni, ultima di tre figli, nata dopo Lucia e Manfredi. Perché assieme all’impegno pubblico sul fronte anti-mafia c’è il rapporto privato e sempre speciale tra un padre e una figlia.

Signora Fiammetta, come ha vissuto il rapporto con suo padre?

“Il rapporto con lui è sempre stato un rapporto normale, anche se so che può apparire strano da pensare e soprattutto da capire. Mio padre ha sempre cercato di impostare con noi figli un rapporto basato sull’ascolto, sul dialogo e sui valori dell’umiltà e del rispetto. Il rapporto con mio padre era come quello che hanno tutte le figlie con il loro genitore: negli anni dell’adolescenza l’ho stressato per avere il motorino - e sono riuscita ad averlo anche prima dei 14 anni - e per avere orari di uscita più "flessibili" rispetto a quelli che mi aveva dato. Prima che gli fosse assegnata la scorta (una realtà blindata per Paolo Borsellino già nel 1984, ndr) quando mi accompagnava a scuola scendevo sempre prima e non proprio vicino all’ingresso, perché mi vergognavo e la stessa cosa facevo quando magari rientravo la sera in compagnia di alcuni miei amici. I miei fidanzati, come capita spesso, ovviamente temevano già solo di incrociare lo sguardo di mio padre sotto casa. Ho vissuto in casa con lui 19 anni e devo dire che, nonostante le scorte le minacce e le pressioni, accanto a lui mi sono sempre sentita forte, non ho mai temuto per la mia vita. Ovvio che tutti noi in famiglia avessimo un po’ di paura, ma per superare quei momenti negativi mi facevo forza con una frase di Giovanni Falcone”.

Quale frase?

“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.

Che percezione avevate del pericolo derivante dalle attività di suo padre?

“Certo sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.

Dal 5 al 30 agosto 1985 Falcone e Borsellino furono portati coattivamente assieme alle famiglie sull’isola-penitenziario dell’Asinara perché suo padre e Falcone dovevano preparare la requisitoria per il maxi-processo a Cosa Nostra. Come avete vissuto quel periodo?

“Sia mio padre che Giovanni Falcone hanno vissuto quel periodo attraversando stati d’animo diversi: eravamo lì perché loro dovevano istituire il maxi processo, il processo più grande realizzato in Italia sino ad allora e quindi c’era una mole di lavoro da fare che richiedeva un grandissimo impegno. I primi giorni in cui siamo arrivati all’Asinara attendevano ancora che arrivassero gli incartamenti e ricordo che si sentivano come dei leoni in gabbia, impotenti, sentivano di avere le mani legate senza poter far nulla, ma sono stati anche i giorni in cui si sono goduti una sorta di "vacanza obbligata", forse almeno per qualche ora, da quello che era diventato il loro obiettivo primario. Quando arrivarono i faldoni invece si gettarono anima e corpo su quegli incartamenti e furono totalmente assorbiti da tutto ciò che comportarono. Per quanto riguarda noi familiari, sicuramente mia mamma, mio fratello Manfredi e mia sorella Lucia avranno avuto una percezione diversa rispetto a me che ero più piccola, ma ad ogni modo la percezione di pericolo si avvertiva. Il 6 agosto 1985 i corleonesi avevano ucciso a Palermo Ninni Cassarà, vicecapo della Squadra Mobile e capo della sezione investigativa. Più di un collaboratore prezioso per mio padre e per Falcone. Da quella tragedia in poi il loro lavoro all’Asinara proseguì con un altro ritmo”.

Rispetto ad altri familiari di vittime della mafia lei ha scelto una posizione più defilata e prova di impegno politico diretto.

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Perché? Dopo la morte di mio padre abbiamo cercato di aggrapparci con le unghie e con i denti alla vita, nonostante fossimo devastati dal dolore. Io mi trovavo all’estero e il mio primo pensiero è stato quello di rientrare e condividere quel dolore con mia madre, con mia sorella Lucia e con mio fratello Manfredi. Non è stato affatto facile, eravamo ogni giorno esposti mediaticamente in maniera estrema, quando volevamo soltanto starcene in silenzio a elaborare il nostro lutto. È stato un processo lungo e faticoso che continua tutt’oggi, tra l’altro. Finiti gli studi, decisi di accettare di lavorare per il Dipartimento Servizi Sociali del Comune di Palermo, ricoprendo quel ruolo come figlia di vittima della mafia. In quel periodo desideravo una normale quotidianità, volevo che si spegnessero i riflettori sulla mia vita come "figlia di Paolo Borsellino" e volevo cercare di essere soltanto Fiammetta. Senza mai dimenticare gli insegnamenti e l’esempio di mio padre, ma cercando di tirarmi fuori da quell’onda d’urto che si è generata dopo la strage di via d’Amelio. Ho lavorato per il Comune di Palermo per 17 anni, ma poi mi sono resa conto che non era più quello che mi rendeva felice”.

E che ha fatto?

"Ho deciso di lasciare il "posto fisso" e dedicarmi ad altro, soprattutto a testimoniare il valore della legalità agli studenti di scuole superiori. Finalmente in presenza, dopo il forzato distanziamento da coronavirus. La didattica a distanza è stata una mutilazione, seppur necessaria, per il mondo scolastico. La presenza, il faccia a faccia, è questo il modo migliore per trasmettere quegli ideali di giustizia e legalità che mi ha insegnato mio padre e che è fondamentale trasmettere ai più giovani per svolgere una vera azione contro tutte le mafie”.

La vicenda di Paolo Borsellino dal 23 maggio 1992, l’assassinio di Giovanni Falcone nella strage di Capaci, al 19 luglio 1992, strage di via D’Amelio, è ancora oggetto di indagini, inchieste e controverse polemiche. Ma è anche per gettare una luce sui misteri di quei 57 giorni che separarono il destino di due amici inseparabili nel lavoro e nella vita. La battaglia di Fiammetta Borsellino è per gettare una luce di verità su un passato che ancora oggi sparge i suoi veleni nelle Istituzioni dello Stato.

Ma soprattutto per un futuro in cui l’abito mentale e la subcultura mafiose siano minoritarie e isolate.

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