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Giudice assente e carte smarrite. Ecco l'incubo processi infiniti

Da oggi addio alla prescrizione. Il caso di un poliziotto, assolto dopo 8 anni dalla querela e cinque di processo

Giudice assente e carte smarrite. Ecco l'incubo processi infiniti

Oggi il Movimento Cinque Stelle pianta la propria bandierina sulla luna della politica. Entra in vigore la legge Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia in caso di condanna che di assoluzione. Esultano i grillini, si compiace Marco Travaglio. E anche se in Parlamento la riforma è osteggiata da quasi tutti (Lega, FdI, FI, Italia Viva, Pd), che a gran voce chiedono in parallelo una riforma sui tempi dei processi, alla fine capodanno è arrivato senza modifiche alla riforma.

Mentre impazzava la polemica, ci siamo ritrovati a scrivere un pezzo su un lungo caso giudiziario che ha coinvolto un poliziotto. Un percorso che l’ha visto ingiustamente accusato, processato, assolto e poi beffato dalla stesso ministero per cui presta servizio. Il suo calvario è durato 18 lunghi anni tra causa penale, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Studiando le carte abbiamo toccato con mano, ma per davvero, quanto le decisioni dei giudici in Italia possano durare all’infinito. Nel caso in questione non è sopravvenuta la prescrizione, certo. E la vicenda s’è conclusa con un’assoluzione. Ma lo svolgimento del processo può forse può far riflettere sulle cause senza fine che coinvolgono per (troppi) anni indagati, ricorrenti e cittadini.

Entriamo nel dettaglio. Tre poliziotti vengono querelati nel settembre del 2001. Nel totale silenzio passa un anno e mezzo e solo a marzo del 2003 i diretti interessati capiscono di essere indagati dalla Procura. È la prassi, direte: prima o poi si arriverà al dunque. Non proprio. Perché per il decreto di citazione diretta bisognerà attendere il maggio del 2006, cioè cinque anni dopo i fatti. La prima udienza viene convocata per l’ottobre dello stesso anno. Solo che viene rinviata, state a sentire, “per il mancato reperimento del fascicolo nella cancelleria del giudicante”. In pratica, ci sembra di capire, avevano momentaneamente perso le carte e la citazione degli imputati è stata “rinnovata” alla successiva udienza, convocata per l'anno a venire. Cinque mesi dopo, è il marzo del 2007, il procedimento viene rinviato (di nuovo) perché l’avvocato difensore aderisce “all’astensione proclamata dalla Camera Penale”. Sciopero, e via. Due mesi dopo ci provano di nuovo, ma mancare è direttamente il giudice titolare. Morale della (brutta) favola: solo a ottobre dello stesso anno finalmente si riesce ad aprire il dibattimento. È ormai passato un anno dalla convocazione della prima udienza.

Quel che forse i tifosi del “fine-processo-mai” non tengono in considerazione è che un procedimento aperto produce conseguenze nefaste sull’imputato, soprattutto se non ha commesso alcun crimine. Per esempio: mentre un poliziotto è sottoposto a processo penale, colpevole o innocente che sia, non gli è permesso di partecipare a corsi di specializzazione che garantirebbero un avanzo di carriera. Tenerlo alla sbarra, rinviare udienze, perdere i fascicoli, causa dunque danni incalcolabili, di cui poco purtroppo si dibatte.

Nel caso in questione, tra una convocazione e l’altra sono passati dai 3 ai 5 mesi. Febbraio, maggio, settembre, dicembre. Alla fine la sentenza è stata depositata in cancelleria al tribunale di Napoli il 30 dicembre del 2008. Dalla querela erano passati sette lunghi anni, cinque dalla citazione in giudizio. Risultato: i tre imputati sono stati assolti da tutte le accuse perché “il fatto non sussiste”. Siamo fortunati che il caso non sia finito in Appello prima e in Corte di Cassazione poi, altrimenti - probabilmente - saremmo ancora a “campa cavallo”. Secondo un'elaborazione del Sole 24 Ore, dalle indagini preliminari alla sentenza in Cassazione in Italia passano in media 1.589 giorni. Cioè quattro anni e tre mesi. I problemi maggiori sono in Appello, dove il 40% delle cause sono giacenti da oltre due anni, limite massimo imposto dalla legge Pinto, che calcola in sei anni la “ragionevole durata” totale di un processo (alla faccia del “ragionevole”).

Il bello, o il brutto, è che la riforma voluta da Bonafede rischia di ingolfare ancora di più proprio i Tribunali di secondo grado che si troveranno a gestire anche i processi che fino a oggi si estinguevano per avvenuta prescrizione.

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