C'è un video che spopola sul web di un imprenditore, o presunto tale vista l'impronta caricaturale, che con un linguaggio volgare al limite del «trash», offre a chi sta nella stanza dei bottoni un punto di vista di ciò che sta avvenendo nel Paese. «C'è il 54% degli italiani, quelli a cui, dicono, piaccia Conte esordisce il personaggio -, cioè dipendenti pubblici, reddito di cittadinanza, reddito universale, reddito di emergenza, che percepisce i soldi stando a casa in accappatoio e che vorrebbe che il lockdown fosse eterno. Ebbene quando noi imprenditori, che rappresentiamo il 10%, ma manteniamo tutto il carro, non daremo più un c..zo e continueremo a restare a casa dicendoci tra noi andrà tutto bene, vedremo in Tv quel 54% di dipendenti che vi verrà a cercare per farvi il c..lo». E ci sono poi otto negozianti che si danno appuntamento in quattro gatti, via Facebook, davanti a Palazzo Chigi per protestare e avanzare delle richieste al governo e, fronteggiati da una calca di quaranta poliziotti, tornano a casa ciascuno con una multa di 400 euro per assembramento: il colmo. Fin qui siamo tra il folklore e la protesta, ma c'è un dato su cui Conte, e compagni, dovrebbero riflettere non poco: secondo la Cgia di Mestre della potenziale platea di piccole e medie imprese che poteva attingere al prestito di 25mila euro previsto dal «decreto liquidità», solo l'1% al momento ne ha fatto richiesta. Tra gli imprenditori che hanno declinato l'offerta ci sarà sicuramente chi è stato scoraggiato dalle 19 documentazioni richieste dagli istituti di credito, ma c'è anche chi, probabilmente la maggioranza, posto di fronte alla scelta di «indebitarsi» o «chiudere», in queste condizioni è tentato dalla seconda opzione.
E già, mettendo insieme tutti i provvedimenti varati dal governo Conte per fronteggiare l'«emergenza economica» ci si accorge che per il 90% hanno un carattere assistenziale, non puntano a tenere in piedi il sistema produttivo del Paese, non producono investimenti. Ergo, non garantiscono occupazione. «Abbiamo spiega il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi reddito di emergenza, di cittadinanza, cassa ordinaria, straordinaria, in deroga e giù di lì. Una distribuzione di denaro a pioggia e in prestito, ma quando i soldi saranno finiti, senza investimenti, sarà un dramma». La ragione di questa carenza, di questo «gap», non è solo economica, ma come sempre ha delle radici politiche: «i produttori» per usare il linguaggio di Matteo Salvini, o «i non garantiti» per rifarsi al lessico di Matteo Renzi, non sono rappresentati in questo governo, o sono rappresentati da una minoranza sparuta. E visto che la politica è innanzitutto mediazione di interessi, quelli di piccoli e medi imprenditori, cioè la spina dorsale del nostro sistema produttivo, sono dimenticati: non si parla di contributi a fondo perduto per le imprese, ma solo di politiche assistenziali. I 55 miliardi di euro, l'unica moneta sonante della manovra anti-crisi, finiscono tutti lì.
La questione non è solo politica, ma culturale, perché in fondo i «criteri» e le «priorità» nella gestione dell'emergenza del governo Conte corrispondono, almeno per ora, al modello di società grillino del «reddito universale». Un modello che nasce su un'incongruenza, perché se nessuno produce reddito, non c'è reddito per nessuno. «Nessun risarcimento per le imprese osserva Renato Brunetta , si salvaguardano solo gli interessi del lavoro dipendente, diretto e indiretto, del blocco sociale che sta dietro al reddito di cittadinanza, di emergenza. Si impone un modello assistenziale, tipo Unione Sovietica, per trasformare quel blocco sociale in un blocco politico che punta a condizionare la nostra democrazia. Il punto debole di questa operazione è che quando si saranno mangiati tutto, arriverà la troika».
Con questo «schema» si rischia di far saltare il «sistema». E non si tratta solo di uno spauracchio, di un'iperbole di Brunetta, visto che mentre sul Manifesto, il quotidiano comunista, una raccolta di firme di 14mila persone chiede di salvaguardare Conte-il manovratore, anche i settori della maggioranza più vicini ai ceti produttivi del Paese, cominciano a vedere un futuro a tinte fosche. «La situazione è complicatissima è il ragionamento che Matteo Renzi fa spesso ai suoi, per spiegare i suoi innumerevoli stop and go e con la politica di questo governo il rischio di una sovietizzazione dell'economia, o più semplicemente, l'approdo ad un'economia assistenziale, c'è, eccome! Soprattutto, c'è il pericolo che il Paese dopo il virus, contragga una sindrome di depressione collettiva che potrebbe esplodere tra giugno e settembre».
Eh sì, perché se il modello dominante è quello del «reddito universale», chi saranno quelli che secondo il patron del Censis, Giuseppe De Rita, si metteranno in gioco per ricostruire e rilanciare il Paese come nel «dopoguerra»? Manca quello spirito. E in questo scenario complesso anche l'ala moderata del Pd basta guardare ai ragionamenti di Romano Prodi - comincia ad avere sempre più dubbi sull'operato di Conte. «L'intervento osserva Enrico Borghi sull'emergenza economica è troppo lento. C'è bisogno al più presto di interventi strutturali sulla nostra economia. Bisogna intervenire pure sui nostri istituti di credito: non vorrei che, avendo perso il 45% delle loro quotazioni azionarie, per riprendersi creino ostacoli al finanziamento delle nostre imprese. Perché se i fondi di investimento internazionali che controllano le nostre banche fanno i loro giochi, allora dobbiamo comunicargli che siamo pronti a nazionalizzarle».
Basta il dissertare sulla «nazionalizzazione» del sistema creditizio, per capire in che condizioni siamo. Solo che dubbi, riserve, critiche si infrangono su una sorta di cappa che con la pandemia è scesa sul Paese: una cappa composta dalla retorica della responsabilità e dall'alto gradimento che Conte godrebbe nell'opinione pubblica. Un dato, quest'ultimo, che la maga dei sondaggi, Alessandra Ghisleri, mette in dubbio. «Qui si infervora - si bara: per la maggior parte degli Istituti è sotto il 50%. Per me tra il 42-44%. Invece, è stata costruita questa favola». Appunto, una favola, una sorta di mainstream, che qualcuno punta ad imporre. Ieri, ad esempio, i leader del centrodestra hanno sobbalzato quando gli è arrivato un sondaggio intestato Swg che vedeva scendere la Lega di 5 punti, Fratelli d'Italia di 2, il Pd crescere di due punti e mezzo, i grillini di tre e Forza Italia quasi di due.
Lo stesso Tajani ha telefonato al Cav per rimarcargli che la politica della responsabilità sul piano dei consensi paga. In realtà era una «fake».Eppure, basterebbe poco per orientarsi: è singolare pensare che Forza Italia possa condurre una politica di appeasement verso un governo di cui è tifoso il Manifesto?
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