«Come tutti i giorni sto andando a piedi in ufficio qui a Milano. E non vedo più di tre persone in giro per strada. Segno che, al di là della nomea che ci hanno affibbiato, gli italiani sono responsabili. Nel momento del bisogno il nostro spirito di adattamento ci rende disciplinati come i cittadini dei Paesi nordici. Poi, verso le sei del pomeriggio vado al Corriere prima non andavo tutti i giorni - e sto lì fino a sera, a discutere, ad immaginare iniziative. Da quella domenica 7 marzo, in cui, di fronte al contagio, gridai che bisognava chiudere tutto e chiudere presto. Come oggi dico che bisogna riaprire, nella sicurezza, ma riaprire presto, perché l'emergenza economica rischia di essere peggiore di quella sanitaria». All'altro capo del telefono c'è Urbano Cairo, proprietario di uno dei più importanti gruppi editoriali italiani che va dal Corriere, ai periodici, a La7. Sta vivendo l'assalto del coronavirus nel capoluogo lombardo, nella regione che da un mese ha il triste primato di essere l'epicentro della pandemia a livello mondiale. Un punto d'osservazione vero, quanto tragico. Dove la realtà spietata, crudele, ti è gettata in faccia dalle immagini del dramma quotidiano.
Come si vive a Milano la terza guerra mondiale?
«C'è la tragedia, con i suoi morti. Ma ci sono anche le immagini dei medici, degli infermieri che, senza retorica, sono eroi. Immagini che danno speranza. Ricordo la sera dell'8 marzo, quando la situazione si era fatta pericolosa. L'epidemia dilagava e il primario dell'ospedale Sacco, professor Galli, spiegava in tv che, andando avanti con quei numeri, il contagio sarebbe raddoppiato ogni quattro giorni. Presi una matita per fare i conti su un foglio e mi ci volle poco a capire che, con quel passo, saremmo arrivati a 400mila contagiati il 31 marzo. E, visto che l'indice di mortalità era più del 10%, avremmo avuto 40mila morti. Per questo alzai la voce, feci quella dichiarazione in cui dissi che bisognava chiudere tutto. Poi, due giorni dopo, in Tv lo ripetei con più vigore. Quasi lo gridai. Ho fatto solo la mia parte, come lo sforzo che stiamo facendo tutti in queste settimane: così abbiamo evitato 300mila contagi e salvato 38mila persone che, secondo le statistiche, sulla carta, sarebbero morte».
Ma forse, se si fosse chiuso tutto prima, avremmo avuto meno morti e l'emergenza sarebbe stata più breve. O no?
«Forse sì. Se il 22 febbraio, quando si scoprì il primo contagio, avessimo chiuso tutto, cioè due settimane prima, magari oggi saremmo soltanto a 30mila contagi. Ma, con il senno del poi, è facile dirlo. E poi c'è chi ha perso più tempo di noi come la Spagna, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, per non parlare degli Stati Uniti. Abbiamo sbagliato meno, anche se tutto è perfettibile».
Speriamo di non commettere lo stesso errore per l'emergenza economica...
«La crisi economica che stiamo per affrontare sarà terribile. Secondo una banca tedesca, ho qui un report, avremo un calo del Pil di circa il 9%. Dal 1862 ad oggi siamo stati peggio solo nel 1943 (-15%), nel 1944 (-19%), nel 1945 (-10%). Invece, stavamo meglio prima e dopo il primo conflitto mondiale. Ecco perché ha senso parlare di economia di guerra. E in guerra la risposta deve essere immediata, altrimenti i danni che non ha provocato il coronavirus, li provocherà la crisi economica. Per cui bisogna ripartire, in sicurezza, ma ripartire. Garantendoci dal rischio di ricadute. Di sicuro non possiamo stare fermi. In un anno rischiamo di mandare in fumo 180 miliardi. Oggi siamo al 3 aprile, studiamo un piano per la ripartenza che faccia tesoro dell'esperienza di Wuhan o di altre pandemie. Potremmo, ad esempio, tenere in casa gli over 65, i più a rischio. Tenere distanti i bambini dagli anziani. Utilizzare di più le donne e i giovani che sembrano le categorie meno esposte».
Si può fare tutto, ma non si può nascondere che l'emergenza ha fatto venire a galla gli handicap del sistema Italia. La vicenda delle mascherine sembra la commedia dell'assurdo. Lei parla di tempismo, ma con la nostra burocrazia rischiamo di ripartire fra un anno...
«Visto che siamo in un'economia di guerra, la prima cosa che dovrebbe fare il governo è un decreto per la semplificazione. Semplificare tutto, per cui quello che si decide si attua subito. Poi, a fine emergenza, si deciderà quali passaggi burocratici vanno reintrodotti e quali no».
Ma questo governo è in grado? Lei ha parlato del dopoguerra, ma in quegli anni i partiti diedero vita a governi di unità nazionale per impegnarsi a ricostruire. Con dentro personalità agli antipodi: De Gasperi insieme a Togliatti.
«Penso che questo governo sia in grado. Ma è anche vero che dovrà essere aiutato da tutte le intelligenze e le risorse che ci sono nel Paese. Svincolate da interessi politici o da calcoli. Per superare la crisi il Paese dovrà fare uno sforzo immane. C'è bisogno del contributo di tutti. Sono convinto che lo Stato dovrà aumentare il suo impegno economico per garantire la rinascita. Basta guardare i numeri messi in campo dagli altri Paesi. Lo Stato dovrà garantire il prestito alle imprese. Dovrà ridurre la pressione fiscale. Investire in grandi opere pubbliche. Operazioni da attuare in tempi brevi. Perché la sfida si vince con la velocità: chiusura, riapertura e ripartenza».
Francamente pensa che questo governo sia all'altezza del compito?
«Oggi una crisi di governo sarebbe incomprensibile. A Milano è vietato passeggiare e intanto Roma litiga? Non scherziamo. Ripeto, il governo deve accogliere il contributo di tutti, ma una crisi, almeno in questo momento, sarebbe folle».
Folli sono anche le polemiche con la Regione Lombardia.
«Ognuno ha fatto i suoi errori. Come ho detto il governo è partito in ritardo, come pure ci sono stati errori a livello lombardo. Ma ora non dovremmo stare appresso alle colpe, ma tutti insieme dovremmo cercare il modo per uscire da questo dramma».
Anche l'Europa non è esente da ritardi ed errori.
«È un'Europa a due velocità. A volte sembra essere consapevole della crisi, altre volte no. All'inizio la Lagarde ha fatto delle dichiarazioni imbarazzanti. Poi la von der Leyen ha rimesso le istituzioni Ue in carreggiata. Troppi stop and go. Eppure la crisi riguarda tutta l'Unione. Non solo l'Italia. Sono nei guai la Spagna, la Francia e persino la Germania. Che senso ha un'Europa senza solidarietà?! Ad esempio, gli eurobond sono una proposta giusta, che farebbe comodo a tutti».
Magari, se l'Italia mettesse in campo un personaggio con l'autorevolezza e lo standing di Draghi, avrebbe più voce in capitolo nelle scelte di Bruxelles.
«Questo governo nell'emergenza ha fatto meglio di quanto ci si potesse aspettare, tenendo conto dei limiti che aveva mostrato prima, in tempi normali. Draghi, però, è una grande risorsa. Io non so se è disponibile, ma è chiaro che in questa fase drammatica una personalità del genere, non so in quale ruolo, andrebbe assolutamente utilizzata. Non c'è dubbio».
E lei? Negli ultimi due anni si è parlato molto del suo ingresso in politica, oggi vuole dare il suo contributo?
«Lasciamo stare la politica. Io sono pronto a dare il mio contributo, tenendo conto, però, che ho i miei impegni di imprenditore in una fase così drammatica. Debbo stare attento alla salute della mia azienda e, quindi, anche a salvaguardare l'occupazione. E non è certo semplice. Qualcuno ha polemizzato sul video che ho mandato a un gruppo ristretto di venditori. Magari la polemica ci sta pure per i toni che ho usato. Ma c'è molta depressione in giro e quel video era solo un incitamento a non mollare».
Un'ultima domanda. Dopo questo momento drammatico la geografia politica resterà immutata? O, più probabilmente, sarà rivoluzionata, nulla sarà come prima?
«Questo è vero: nulla sarà come prima. Non sono in politica, ma parlo da cittadino.
Ci sarà un cambiamento profondo. Cambierà l'agenda della politica, le proposte, magari gli stessi partiti. La politica dovrà ristrutturarsi, impegnarsi su problematiche e temi completamente diversi. Come dopo una guerra».
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