Grido all'impiegata che si vede all'interno: «Ehi, la macchina mi ha mangiato la carta e non mi ha dato un euro». «Anche la mia» dice la signora in fila accanto a me. I greci stanno in fila a occhi bassi, non urlano, ma cercano di evitare il contatto degli sguardi. I turisti strepitano in inglese, tedesco, russo. «Vedo che cosa posso fare» sussurra la ragazza della banca che esce sul marciapiede e armeggia con il Bancomat finché non costringe il mostro a sputare le carte rubate, ma senza concedere un solo euro.
«Eh sì, niente soldi», conferma l'impiegata rifugiandosi nell'ufficio. La fila vibra, sussurra, più smarrita che arrabbiata. Sono in Grecia a Corfù, che nell'Odissea si chiama isola dei Feaci, gente di gusto, mercanti d'arte. Il tassista mi sussurra: «La porto da Alexis che è amico del direttore della piccola banca del quartiere. Ci sono un po' di euro in cassaforte per gli amici. Inoltre Alexis fa una splendida Mussaka e si può pranzare da lui». Così, per caso, ho assistito alla diffusione di due sentimenti collettivi impressionanti: lo stupore e l'umiliazione. Qualcosa di enorme cominciava ad accadere e colpiva il popolo greco senza distinzione.
Le persone davanti alle banche chiuse avevano l'anima rotta, qualcosa di spezzato dentro.Sembravano ostaggi nelle mani di un potere lontano. E con quell'inutile rettangolo di plastica in mano trasmettevano lo sgomento del pudore violato.
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