Politica

Il kapò gaffeur nemico di Milano

Siccome il tempo è galantuomo, al contrario di qualcun altro, è bastato accamparsi un paio di mesi sulla riva di quel fiume mefitico e limaccioso che è il dibattito pubblico italiano, per veder finalmente passare il cadavere politico di Francesco Boccia

Il kapò gaffeur nemico di Milano

Siccome il tempo è galantuomo, al contrario di qualcun altro, è bastato accamparsi un paio di mesi sulla riva di quel fiume mefitico e limaccioso che è il dibattito pubblico italiano, per veder finalmente passare il cadavere politico di Francesco Boccia.

Era il 19 marzo quando, in piena emergenza, con migliaia di morti in Lombardia, Boccia si presentò in conferenza stampa a fare cabaret con una mascherina appesa a un orecchio, in una scena che passerà alla storia per mancanza di rispetto e senso istituzionale. La notte precedente i camion avevano portato via decine di bare da Bergamo perché non c'era più posto per il dolore. Oggi, la geniale trovata del bando per un'armata rossa da operetta di 60mila sceriffi anti-movida e il coro di critiche bipartisan, è il de profundis sui suoi mai e mal celati sogni di gloria e carriera. Non abbiamo neanche dovuto aspettare troppo per la spietata nemesi.

Intendiamoci, non che la caratura da statista del ministro al Bullismo regionale sia mai stata tale dal distrarre le masse da faccende più serie. Però, ad essere onesti, Francesco Boccia, che fra i meriti annovera due sconfitte roboanti alle primarie pugliesi contro Vendola, un passato da twittarolo aggressivo e una scarsa consapevolezza aeronautica (definì i caccia F-35 «elicotteri con cui si spengono incendi e si trasportano malati»), non sembrava fra i peggiori. Onesto portatore d'acqua dem di osservanza Emiliana, nel senso del governatore Michele, gli va riconosciuto di essersi speso in prima persona per la chiusura, quando nel governo in tanti svicolavano. Il problema è che, una volta investito del titolo di «volto nuovo» della sinistra e catapultato sul palcoscenico del Covid, nella pochezza generale il suo ego ha messo su chili come gli italiani in quarantena. E nella casacchina da gregario ha cominciato a starci stretto, tanto da inventarsi quella da volontario civico senza consultare i colleghi al governo.

Pian piano, Boccia ha innalzato se stesso e il suo dicastero - uno dei più burocratici e ridondanti dell'architettura istituzionale - all'ennesima potenza del presenzialismo. Così, mentre si seppellivano i parenti, i sogni imprenditoriali e le speranze di essere governati da una classe dirigente efficiente, il ministro Boccia è passato da comparsa ad attore protagonista. E, se è vero che ogni esecutivo ha il suo gaffeur à la Toninelli, da ora si dirà che ognuno ha il suo campione di arroganza e compiaciuta saccenteria à la Boccia.

Vale la pena passare in rassegna il suo interregno del terrore interregionale.

Il caso della mascherina giullaresca usata per replicare alla Regione Lombardia che protestava per l'invio di dispositivi inadeguati è stata solo la punta dell'iceberg. Letteralmente, perché, al contrario di quanto vorrebbe il suo ruolo di cinghia di trasmissione fra Palazzo e amministrazioni locali, il ministro Boccia ha impostato la sua comunicazione all'insegna di un gelo altezzoso. Ogni singolo giorno, una stilla di disprezzo, una reprimenda, una frase ostile. Nelle sue esternazioni, al di là della consueta formula ripetuta alla nausea del «non ho voglia né tempo di fare sterile polemica», la polemica era immancabile come una pochette, cifra stilistica della sua conflittualità. E il messaggio vagamente predicatorio era sempre lo stesso: le Regioni (soprattutto di centrodestra) sono il male, incapaci ed egoiste; il governo centrale è l'unica salvezza.

D'altronde il buongiorno si sarebbe potuto vedere dal mattino, con Salvini accusato di essere un «untore» perché critico con la gestione dell'emergenza. Poi, pian piano, mentre i fronti di nervosismo con i governatori si moltiplicavano, Boccia non si è tenuto più. Prima ha quasi spinto il premier a dichiarare loro guerra con il conflitto di attribuzioni. Poi ha menato come un fabbro sulla «rete fragile» della sanità lombarda, negando ogni evidenza dei ritardi nella distribuzione delle mascherine «che stanno arrivando a tutti, soprattutto alla Lombardia» e snobbando «chi parla e sta in salotto» (chi? Forse Conte, che nelle zone dell'epidemia è arrivato buon ultimo?). Il filo conduttore è sempre stato lo stesso: «Da sola ogni Regione sarebbe crollata». Sicuramente vero, così come ogni Regione si sarebbe rialzata prima senza i ritardi di quello Stato pachidermico.

Finché vestiva la divisa severa del kapò, pronto ad agitare il manganello per impressionare l'Hauptsturmführer, il ministro Boccia poteva anche piacere agli odiatori del Nord. La percezione è cambiata quando è passato nei panni dell'autorità morale e a un linguaggio intimidatorio calato dall'alto. Erano le settimane di paralisi decisionali, con le Regioni che imploravano una visione, a volte provando a legiferare. Lui, guardiano della rivoluzione, distribuiva fatwe: Alto Adige, Umbria, Calabria, Liguria, ciascun territorio fustigato per i suoi peccati e minacciato, tranne il Lazio santo di Zinga, elogiato per «lo straordinario lavoro». Ordinanze coerenti o le impugniamo - ammoniva -, nessuno muova un muscolo o vi chiudiamo i confini e vi roviniamo l'estate. Possiamo farlo e sapete che non esiteremo. Che, nel contenuto, sarà anche stato sensato, ma in politica la forma è sostanza. E la forma, in questi mesi, è stata quella di un ministro smargiasso alla Marchese del Grillo di cui un Paese in crisi d'identità e ad alto rischio di tensioni non aveva bisogno.

L'ultima maschera (le mascherine a 50 centesimi di Arcuri latitano) di Boccia è invece quella del problem solver. Così, in un crescendo rossiniano di onnipotenza percepita, prima ha preteso dalla comunità scientifica «certezze inconfutabili», alla maniera staliniana; poi è passato a fare il difensore d'ufficio del grillino Ricciardi, l'hater della Lombardia, «che ha detto cose sotto gli occhi di tutti, non è lesa maestà». Infine, ha deciso che dei 21 parametri per il monitoraggio dell'epidemia contano solo i nuovi contagi, come un Gallera qualsiasi. Fino al capolavoro del bando sugli sceriffi «aperto anche ai pensionati», che se per sbaglio erano scampati al virus ora potranno finalmente prenderlo. Sempre che non si prendano le bottigliate da quelli a cui dovrebbero dire di bere una birra da un'altra parte.

Per fortuna del ministro, noi siamo consapevoli che questo non sia il momento dei processi sommari e della ricerca degli errori politici, né di Conte, né dei governatori, né tanto meno suoi. Per fortuna del ministro, gli italiani moderati a cui i suoi toni e la sua protervia non vanno a genio non sono criminali come chi tappezza Milano con volantini dal tono «Fontana assassino». Quindi non scriveranno «Boccia bocciato in buonsenso» sui muri, né chiederanno le sue dimissioni. Si limiteranno ad osservare dalla riva del fiume che finalmente il ministro ha unito il Paese: ora davvero tutti hanno capito che il primo ad avere bisogno di un assistente civico è lui. Gli serve per mettere ordine nell'assembramento dei suoi rancori e delle sue confuse ansie di pieni poteri.

68 giorni dopo quella mascherina, i conti tornano.

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