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L'ignoranza al potere fa sballare i conti

L'ignoranza al potere fa sballare i conti

Il debito pubblico è un fatto economico, però non le sue cause. Magari quelle dirette sì: spesa pubblica, investimenti, interessi e così via. Ma esse a loro volta trovano origine in qualcosa che ha poco o nulla a che vedere con l'economia. Diciamo questo per spazzare via subito l'alibi di quanti «non si occupano di economia». Il debito pubblico in ultima istanza è un fatto culturale, di quella cultura genuina, di come noi cittadini medi interpretiamo ed elaboriamo il contesto e la vita.

Il position paper sul rapporto debito/Pil in Italia, curato da Ambrosetti, ricorda che l'abbiamo portato a «un valore superiore al picco vissuto durante la Seconda guerra mondiale, ed inferiore di soli 28 punti percentuali al punto di massimo indebitamento dello Stato, vissuto nel primo dopoguerra». Inoltre, denuncia come questo fardello sia un driver (forse l'unico) dell'incapacità di crescere del Paese e ne «individua tre motivazioni strutturali, tra le tante:la scarsa produttività, la scarsa formazione del capitale umano, lo scarso livello di investimenti». Per utilizzare al meglio l'ottimo contributo, occorre ricondurre tali cause ai pensieri con cui noi cittadini valutiamo il sistema sociale ed economico in cui operiamo e ci procuriamo da vivere.

A cominciare da come formiamo (e abbiamo formato) le persone che producono quel reddito che, tutto insieme, dovrebbe sostenere il debito. In termini semplici, un genitore non forma il capitale umano se pensa che poi lo stipendio non gli debba derivare da quanto è bravo nel lavoro, da quanto bene produce nel sistema in cui opera, ma dalle relazioni a cui avrà accesso (per chi le ha) oppure da un posto fisso ottenuto con un titolo, non col sapere, e protetto fino all'insostenibile. Certo, non tutti preparano a questo i figli. C'è chi li forma al meglio e al massimo. Di questi, alcuni se ne vanno perché altrove gli riconoscono il merito che qui gli viene negato, altri restano e producono bene. Peccato che il loro numero non sia sufficiente e nella media il capitale umano risulti insufficiente a competere con altre economie. Per aumentare il capitale umano, bisogna accettare di misurarsi e di perdere, a volte. È cultura, non economia.

Passiamo alla scarsa produttività. Intanto, non si tratta di quanto siano produttivi i lavoratori, ma di quanta managerialità e meritocrazia li governi, del grado di digitalizzazione e dell'ambiente economico, fatto di mercato del lavoro, di velocità della giustizia e amenità simili. Non sei produttivo se ogni gara pubblica finisce al Tar. Non sei produttivo se qualche perizia di scale mobili consente a un giudice di bloccare per mesi una metropolitana. In sintesi, non sei produttivo se il sistema pretende di normare tutto, e poi non controlla, invece di lasciare spazio alle attività, salvo controllare e punire nel merito con l'urgenza dei tempi economici, aggiungerei. Per noi, la soluzione di un problema sta nella promulgazione di una legge, che poi non facciamo rispettare. A che serve la norma? A sollevare le persone dalla responsabilità di fare bene e di controllare. Perché ci blocchiamo sul controllo? Per il perdono, parte del nostro modo di stare al mondo. Detto anche: la cultura del perdono.

Infine, gli investimenti. Chi investirebbe in un Paese caratterizzato da bassa produttività e scarso capitale umano? Se poi ci aggiungiamo quel pizzico di cultura bancaria, che finanzia non chi ha le capacità di produrre ricchezza ma chi ha già la ricchezza per garantire il finanziamento, il cerchio si chiude.

Con la cultura non si mangerebbe? Sicuramente senza si muore di fame.

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