Cronache

Luigi Albanese, il Rambo vicentino diventato eroe di guerra in America

L’unico italiano decorato con la massima onorificenza di guerra degli Stati Uniti morì in Vietnam a 20 anni per salvare la vita al suo plotone. Era partito dal Veneto bambino, sognava di tornarci da soldato, ma il suo paese non lo ha mai dimenticato

Luigi Albanese, il Rambo vicentino diventato eroe di guerra in America

Era arrivato solo da quattro mesi ma sentiva che non sarebbe tornato più. Quella sensazione strana, spaventosa e definitiva l’aveva addosso dalla sera prima di partire quando, in una sera di mezza estate, aveva diviso le birre con Doug, il suo migliore amico, chiacchierando di quella Pontiac fantastica che avevano aggiustato e restituito alla strada insieme al fratello e degli anni belli vissuti fin lì, scoppiando a ridere a un certo punto perché si erano accorti di parlare come due pensionati quando invece non avevano che vent’anni tutti e due. «Abbi cura di te laggiù» gli disse Doug appoggiandogli una mano sulla spalla prima di andare via, «non ti preoccupare, amico mio» gli rispose lui abbracciandolo. «Quando ci staccammo - ricorda adesso Doug - un brivido mi corse lungo la schiena. Sentii che non l’avrei più rivisto. E forse anche Luigi lo avevo capito».

Luigi Albanese, che a Seattle, «the rainy city», la città color smeraldo, la città della pioggia, tutti chiamavano Lewis, era arrivato in America a due anni, nel primo dopoguerra, l’anno in cui l’Italia va alle prime libere elezioni dopo il Ventennio, perché mamma Giannina e papà Rodolfo avevano deciso di rifarsi una vita lontano dall’Italia, di ricominciare tutto nella terra dei liberi e dei sogni, dopo anni di bombe e di macerie. Anche se mamma fa fatica a preparare la valigia il giorno in cui se ne va. Ha un dolore tremendo al metacarpo che non vuole passare, sembra quasi un avvertimento, un ultimo tentativo del destino di tenerla a casa. «Non andare via…» la implora la sorella Maria, asciugandosi le lacrime, ma quel che è deciso è deciso. Forse se avesse solo trovato la forza di insistere. Anche lì, nell’abbraccio tra due sorelle, passa quello strano brivido.

Vengono da Cornedo Vicentino, gli Albanese e i Maule, il cognome della mamma, dalla valle dell’Agno, ai piedi delle Prealpi venete, allora più o meno settemila abitanti, in frazione Cereda «e un giorno a Luigi sarebbe piaciuto tanto tornare - ricorda zia Maria - Voleva farsi assegnare alla caserma Ederle di Vicenza, dove erano di stanza le truppe della Nato, ma non ha avuto il tempo nemmeno di organizzarsi». Perché Luigi l’italiano adesso è un soldato americano.

Si è laureato alla Franklin High School, per un po’ di tempo è andato a lavorare in un fast food poi alla Boeing, che allora era la società più importante della città, quello che oggi è Microsoft, ma adesso gli è arrivata la cartolina militare. Dice che verrà assegnato alla base di Fort Carson, in Colorado, e che poi prenderà servizio come soldato di prima classe con la Compagnia B del 5° Battaglione Aeromobile della 1a divisione del 7° Cavalleria, quello del generale Custer, che ha come base Camp Radcliff nel Distretto di An Khe. Perché è in Vietnam che Luigi deve andare, a combattere quella che chiamano «la guerra dei ragazzini», perchè sono tutti ventenni, se non più giovani quelli che vanno a morire, nella terra dove gli americani sganciano 7 milioni di tonnellate di bombe, tre volte quelle della seconda guerra mondiale senza piegare la resistenza di Hanoi, dove come dirà Ronald Reagan «l’America ha vinto la guerra ma ha perso la pace».

Luigi ha la faccia pulita del ragazzo perbene e il sorriso non gli manca mai. Chi lo conosce dice che ha un cuore grande così e che la sua vera arma è l’altruismo, dare una mano al prossimo, in pace come in guerra. «Un bravo ragazzo tuttofare - lo ricorda George Ehgott, uno dei suoi insegnanti - che preferiva non farsi notare. Ma la maggior parte delle persone migliori non finisce mai sotto la luce dei riflettori finché non fa qualcosa di straordinario come quello che ha fatto lui». Si arruola insieme a Roy Weaver, un altro dei suoi amici più cari, convinto di restare sempre al suo fianco. Invece li separano e non si vedono più.

Da Camp Radclif, dove Luigi arriva i primi giorni di luglio del sessantasei, partono le micidiali operazioni Search and destroy, «cerca e distruggi», create dal generale William Westmoreland, comandante in capo delle forze armate americane, per individuare nella giungla i rifugi dei vietcong uno per uno e raderli al suolo insieme alle loro unità guerrigliere. Una tattica che dovrà fare i conti con trappole e agguati invisibili.

Sono le due di un pomeriggio di dicembre quando il plotone di Luigi arriva a ridosso del villaggio di Phu Huu. Sembra un posto tranquillo ma in Vietnam nessun posto lo è. La boscaglia nasconde decine di vietcong armati che stanno aspettando da ore proprio quella pattuglia di ragazzini, hanno preparato bene l’imboscata e adesso che li vedono avanzare li sentono ormai in pugno. Ma Luigi capisce che c’è qualcosa che non va, ci sono ombre strane che si muovono dietro quei cespugli, c’è un nemico, ma lui non lo sa, che si prepara ad accerchiare quel manipolo di soldati per sterminarli. Decide così di muoversi da solo, si stacca dal gruppo per andare a controllare, infila il fossato che da sinistra porta al villaggio e al primo movimento fa fuoco con il suo M16. Ha visto bene: otto cecchini nascosti cadono feriti a morte, la scaramuccia dura qualche minuto, lui solo contro tutti, ma le munizioni finiscono alla svelta. Scopre di essere ferito e di non aver vinto il nemico che è ancora lì, di fronte a lui. Senza più pallottole carica la baionetta sul fucile e combatte corpo a corpo, sa che la sua è una partita persa, ma niente lo farà tornare indietro: fa fuori altri due vietcong, il terzo non gli lascia scampo. Non cade però invano. Quella sua azione solitaria permette al gruppo di sfuggire alla trappola, di mettersi in salvo, senza perdere un uomo contro un nemico, in quell’angolo di inferno, superiore per armi e soldati. Luigi torna in America dentro una bara con la bandiera a stelle e strisce, centoventi giorni dopo esserne partito.

Quando espongono la salma nella camera ardente della chiesa di quartiere della sua Seattle l’amico Doug non lo riconosce: «Non è lui quello lì dentro, non è la sua faccia quella». Gli spiegano che il viso è stato ricostruito da un’operazione di plastica facciale perchè i vietcong avevano infierito su di lui a coltellate fino a renderlo irriconoscibile. «Io e mio marito siamo stati informati della morte di Luigi con un telegramma di mia sorella Giannina - racconta ancora zia Maria - Poi per la nostra famiglia niente è stato più come prima».

Sono passati 442 giorni da quel giorno, l’ultimo della vita di Luigi, e nella sede del Pentagono il segretario dell’Esercito Stanley Roger Roser ha di fronte a sé mamma Giannina e la sorella Rosita: tiene tra le mani la Medal of Honor del Congresso, la massima onorificenza di guerra delle forze armate americane, quella che l’America consegna soltanto agli eroi. Dal 1862 ad oggi ha premiato poco più di tremila soldati, quasi tutti scomparsi in combattimento, e nessun italiano. Nessuno tranne Luigi Albanese di Cornedo Vicentino, di anni 20, figlio di Rodolfo e di Giannina. Non è il solo italiano ad aver combattuto in Vietnam. C’è Vito Vitrò, ventenne calabrese di San Vito sullo Ionio, fuciliere del 26mo fanteria ucciso da una raffica di mitra. E Raffaele Minichiello, campano di Melito Irpino, che tornato in Usa pluridecorato diventa protagonista del più lungo dirottamente della storia e che oggi vive nella Seattle di Albanese. Ma solo lui è l’eroe degli eroi. Un docufilm sulla storia di Luigi detto Lewis realizzato da Franco Lovato, è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia e la sua Cornedo gli ha intitolato una via. Almeno il suo paese non l’ha dimenticato.

Ora è sepolto all’Evergreen Washelli di Seattle. Sul muro del Memoriale di Washington, due lunghe pareti lucide di granito nero, ci sono scritti i nomi del 58.220 americani morti in Vietnam. Luigi Albanese è sul pannello 12E, riga 131. Ma non uno dei tanti.

Uno di noi.

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