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L'ultimo macellaio comunista benedetto anche dal Pci

L'ultimo macellaio comunista benedetto anche dal Pci

Era il «Grande fratello» di Pol Pot, l'Himmler dei Khmer rossi, l'ideologo del genocidio cambogiano, due milioni di poveri cristi macellati in quattro anni da lavori forzati, fame, esecuzioni di massa, un quarto della popolazione dell'intero Paese sterminato scientificamente, soprattutto vecchi, bambini e donne.

Nuon Chea, 93 anni appena compiuti, arrestato solo nel 2007 e condannato all'ergastolo cinque anni fa per crimini contro l'umanità, era il numero due del Partito comunista cambogiano, cioè di una banda di assassini seriali che nemmeno Orwell, o Tarantino, avrebbe mai potuto immaginare, un miscuglio di paranoia ideologica, vocazione omicida e fanatismo giacobino. Un intero popolo cacciato dalle città per rurarizzarlo, proletarizzarlo, annullarlo attraverso la distruzione di tutte le carte d'identità. Le madri separate dai figli, per legge, il potere consegnato ai bambini in quanto esseri puri. Il divieto di manifestare sentimenti, amore, affetto, tenerezza, il divieto persino di piangere. Un terzo di tutti i maschi cambogiani giustiziato perché considerato una spia. La metà di tutti gli omicidi portata a termine con spranghe di ferro, per risparmiare sulle pallottole. L'eliminazione fisica di tutti i monaci e di tutti i giornalisti, e poi degli ingegneri, dei medici, dei professori, degli studenti, degli artisti, perché sapere era una minaccia per il regime. Detenuti costretti a divorare pezzi del loro corpo prima d'essere uccisi. Uccidere con il buio, nel terrore delle ombre, poi era un'altra ossessione degli uomini in pigiama nero.

Nuon Chea, era nato nella provincia di Battambang e aveva studiato legge alla prestigiosa Università Thammasat di Bangkok. Dal movimento giovanile del Partito comunista thailandese si era spostato a quello cambogiano e lì era diventato un partigiano della resistenza contro il colonialismo francese. Con Pol Pot aveva costruito l'Angkar, la fantomatica cupola di comando dei Khmer rossi, una specie di divinità astratta votata all'annientamento fisico degli oppositori, veri o presunti che fossero.

Per decenni impunito, solo ai supplementari di una vita da boia è stato catturato dalla giustizia. Alla prima condanna se ne è aggiunta una seconda, l'anno scorso, per «genocidio» contro i vietnamiti, membri della comunità sham e di altre minoranze religiose. La Corte ha riconosciuto contro di lui una serie di accuse da far paura persino al demoni: sterminio, resa in schiavitù, deportazione, tortura, persecuzione per motivi religiosi, razziali e politici, stupro di massa. Ora è rimasto solo Khieu Samphan, unico processato ancora in vita, Pol Pot è morto nel 1998, l'ex ministro degli Esteri Ieng Sary e la moglie se ne sono andati senza essere processati. E la storia finisce qui. Il premier della Cambogia Hun Sen, ex capo anche lui dei Khmer Rossi, ha messo in guardia dal condurre nuove indagini in futuro. Dice che potrebbero portare il caos nel Paese. E pensare che il Comitato centrale del Pci nel 1975 appoggiò questa banda di psicopatici con un esplicito documento «a favore dell'eroica resistenza del popolo cambogiano e vietnamita» e con una manifestazione di solidarietà a Bologna. Tra gli estensori della risoluzione ufficiale che esaltava l'operato di Pol Pot, c'erano Giorgio Napolitano, Antonio Bassolino e Armando Cossutta. L'oratore ufficiale, l'allora segretario nazionale della Fgci, D'Alema. «In Cambogia soltanto i muti sopravvivono», spiegava uno dei protagonisti del film Urla del silenzio.

In Italia invece quelli che fanno finta di niente.

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