Sarà pure il governo del cambiamento, ma alla fine lo spartito pare lo stesso di sempre. E racconta di un assalto all'arma bianca a via XX Settembre che nella storia recente è stato più volte preludio di rovinose crisi di governo. Basti pensare al braccio di ferro tra Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan o, facendo un passo più indietro, alle veementi incomprensioni tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Quando un premier - o comunque la leadership del governo - si scontra apertamente con il ministro dell'Economia è quasi sempre andata a finire male.
D'altra parte, non è un mistero che Giovanni Tria sia entrato nel mirino del M5s anche e soprattutto per ragioni indipendenti dal suo ruolo. Il ministro dell'Economia, infatti, fino a pochi mesi fa è stato un fedele esecutore degli input che gli arrivavano da Matteo Salvini e Luigi Di Maio, al punto di andare a perorare previsioni di crescita ai limiti del credibile nei più importanti consessi internazionali, Bruxelles su tutti. Ancora a febbraio Tria sosteneva candido: «I fattori negativi che hanno determinato un peggioramento della crescita negli ultimi trimestri non sono destinati a perdurare. Ci sono le premesse per una graduale ripresa nel 2019». Solo da qualche settimana pare che il ministro sia rinsavito. Pochi giorni fa, per dire, ha ammesso candido che sì, la crescita in Italia si avvia «verso lo zero». E anche nel Def atteso in Consiglio dei ministri il 9 aprile i rumors dicono che il Mef ridurrà i temerari obiettivi di crescita che si era dato: dal Pil al +1% di dicembre si dovrebbe passare a un più realistico +0,3 o +0,4%, mentre il deficit dovrebbe essere fissato al 2,3% del Pil contro il 2,04% frutto dell'accordo con la Commissione Ue. Tria, insomma, inizia a muoversi in maniera più autonoma, anche grazie all'ombrello del Quirinale.
Quel che è cambiato rispetto a due mesi fa è che ormai siamo in campagna elettorale permanente. Con il voto del 26 maggio che si prospetta come un vero e proprio terremoto all'interno della maggioranza di governo. Se dovessero essere confermate le previsioni dei sondaggi, infatti, in un anno la Lega passerà dal 17,3% a circa il 30 (da terzo a primo partito) mentre il M5s crollerà dal 32,6% al 18-20 (da primo a secondo, forse terzo partito dopo il Pd). Uno stravolgimento che in tempi così rapidi non ha precedenti nella politica italiana. E che è altamente probabile si porti dietro strascichi importanti per il governo. Così, Di Maio ha deciso di guardare avanti, ha messo Tria nel mirino per provare a scaricare sul titolare dell'Economia tutte le responsabilità ed è pronto a sacrificarlo sull'altare di un possibile rimpasto. Ieri lo ha detto chiaro e tondo a Giuseppe Conte, a Doha per una visita di Stato. «Il giorno dopo il voto, quando Salvini ci presenterà il conto - ha spiegato il vicepremier grillino al premier - noi gli offriremo la testa di Tria». Il ministero dell'Economia, insomma, sarebbe il piatto forte di un eventuale rimpasto post Europee. Con buona pace delle rassicurazioni pubbliche che hanno seguito di poche ore la telefonata di ieri tra Roma e il Qatar. «Siamo una squadra, Tria non è in discussione», ha giurato Di Maio intervistato a Stasera Italia su Rete4.
Certo, che poi Salvini accetti davvero l'offerta è da vedere. Non solo perché dopo il 26 maggio potrebbe avere altri progetti - le elezioni anticipate per capitalizzare - ma anche perché la casella dell'Economia è sì centrale ma anche pericolosa visti i tempi di crisi che ci attendono.
Non è un caso che quando a maggio saltò la nomina di Paolo Savona e molti puntarono i riflettori su Giancarlo Giorgetti come possibile alternativa, il diretto interessato disse «no grazie». Non perché non in grado, ma perché troppo alto era il rischio di bruciarsi.
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