Cronache

Il pallone, le donne e l'esilio. Gaucci, una vita da Cinecittà

Il pallone, le donne e l'esilio. Gaucci, una vita da Cinecittà

Leggo: «Il mondo del calcio piange Luciano Gaucci». Balle, colossali balle. Il mondo del calcio finge il solito cordoglio da repertorio ma non ha mai sopportato un filibustiere qual è stato Luciano Gaucci, venuto a mancare ieri, all'età di anni ottantuno, nella sua dimora di Santo Domingo. Nella Repubblica dominicana aveva deciso di rifugiarsi e, comunque, di vivere dopo peripezie di vario e avariato tipo, condanne, cause finanziarie, turbolenze famigliari. Gaucci è stato protagonista di un'Italia fracassona e furbastra, là dove nella famosa sana provincia, potevano accadere vicende improbabili e storie impossibili. Pantagruelico nel fisico, tracimante nel dire e nel fare, Gaucci era un romano de Roma che conosceva ogni angolo della città eterna per via del suo primo lavoro ufficiale, come autista dell'Atac, circolare destra, numero 8, fermata di san Pietro, passeggeri: turisti vari ma molte tonache, cioè preti e suore a bordo, avanti c'è posto. Qualche tempo prima, aveva sbrigato la vita come cameriere nella trattoria a Cinecittà, dove suo padre aveva comprato, dopo la guerra, alcune villette con annesso ristoro. La voglia di guidare i camion o i torpedoni gli venne imposta al servizio militare, svolto a Reggio Emilia; passato poi all'azienda municipale, mollò il volante e si iscrisse a un concorso interno, da impiegato. Con i quattrini raccolti aveva lasciato il segno, in città, transitando, a clacson aperto, a bordo della sua Taunus colore panna e arancione.

Gli piaceva la bella vita, non era ancora lardoso come sarebbe poi diventato per gli stravizi, intuì che preti e suore, di cui sopra, vivessero in convitti e conventi dove sarebbero stati necessari ramazza e secchio, per tenere lucidi pavimenti e stanze. Così si inventò La Milanese, nome improbabile ma astuto per i romani che abboccarono, è venuto giù questo dal Nord e ci tocca lavorare. La ditta succitata si occupava appunto di pulizie, dipendenti tremila, vietata qualunque manifestazione sindacale, pena il licenziamento come avrebbe fatto con la catena di allenatori, quando si sarebbe messo a comprare squadre di calcio, il Perugia su tutte. Gli affari procedevano grazie all'affetto, si fa per dire, di un cardinale, Fiorenzo Angelini che, per proprietà transitiva, gli fece conoscere Giulio Andreotti e poi Ciarrapico e quindi Franco Evangelisti, la «Rrroma de sempre». Gli offrirono anche un posto nella Roma calcio, di cui lui era matto tifoso, con il 13 per cento delle azioni. Raccontano che Andreotti, alle Capannelle, durante i clamori di una corsa ippica, gli suggerì di comprare la Lazio che stava andando a pezzi ma lui, fervente giallorosso, rifiutò temendo di essere «magnato» dagli ultras.

Venne poi un'esistenza affollata di accadimenti dei più disparati e disperati, tra matrimoni, separazioni, storie di amore improvviso e imprevedibile, la prima moglie e due figli, poi un'avventura dominicana, Iris il nome della fiamma, e altri due pupi. Ma poi apparve lei, Elisabetta, showgirl televisiva, la Wanda Nara di allora, Elisabetta diventò regina non dei Windsor, ma del reame Gaucci. Biondissima, di araldica faceva Tulliani, sappiamo tutti che cosa significò per l'ex autista dell'Atac e per il successivo partner, consorte della stessa Elisabetta, al secolo Fini Gianfranco. Erano tempi in cui a Gaucci venivano giù dal cielo l'oro, l'incenso e la mirra. Il suo hobby per l'ippica gli aveva procurato soddisfazioni e vittorie, Tony Bin andò a vincere l'Arc de Triomphe, dunque miliardi due. Il cavallo, comprato per milioni sei, fu rivenduto da Gaucci ai giapponesi in cambio di miliardi 7, in lettere sette. Al superenalotto altra vincita bimiliardaria, la Tulliani, non ancora e mai in Gaucci, se la spassava nel castello di Torre Alfina, dove, si raccontava, accadessero cose da Tinto Brass o Rocco Siffredi, tanta era la voglia del Gaucci di confermare la propria fama e fame. La singolare relazione tra i due passò dalle aragoste e champagne alle carte bollate e Gaucci, per sfuggire a Equitalia che richiedeva il versamento di milioni 133 e 606mila euro, aveva affidato ai Tulliani, Elisabetta e il suo astuto fratello, cinque appartamenti a Roma (in uno era domiciliata la Tulliani con il nuovo compagno, anzi camerata, Fini), terreni vari, gioielli, cinque automobili, opere artistiche, sculture e quadri, uno di De Chirico, uno di Guttuso. In verità la generosità di Gaucci era stata estesa a tutta la Tulliani family, il padre Sergio, la madre Francesca Frau, e, come detto, il fratello Giancarlo, poi titolare dell'appartamento di Montecarlo, con annessi misteri, denunce, minacce, fughe, silenzi dell'ex ministro Fini, Giancarlo anch'egli, come il genero.

Aggiungo le vicissitudini calcistiche del Gaucci presidente del Perugia, del Catania, della Sambenedettese, della Viterbese, tra retrocessioni, licenziamenti, fallimenti. Fu lui a portare in Italia il primo libico, Saadi Gheddafi, figlio del colonnello e risultato positivo al test antidoping, dopo l'esordio di un solo quarto d'ora di partita contro la Juventus. Fu Gaucci a portare in Italia il primo iraniano, Rezaj, il secondo giapponese, Nakata, il primo coreano, Ahn (che ci eliminò dal mondiale), la prima allenatrice, Carolina Morace alla guida della Viterbese maschile; fu lui ad assoldare il primo cinese Ma Mingyu ribattezzato Mah, trattandosi di una bufala sontuosa e rispedito a Pechino, fu lui a inserire in rosa dieci etiopi che chiedevano asilo politico e a iscrivere una donna nella squadra maschile del Perugia, Birgit Prinz, fuggita ancora prima di incominciare la provocazione. L'album si interruppe e venne chiuso con l'esilio o fuga a Santo Domingo, in una villa di lusso, accanto a quella di Antonio Banderas.

Roba da film ma tutta roba vera, vissuta da Gaucci Luciano, l'autista della circolare destra in Vaticano.

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