C’è un film con William Hurt del 1991, “Un medico, un uomo”, in cui il protagonista passa dal camice bianco al pigiama da malato. “Un’esperienza molto simile la mia” esordisce Guido Invernizzi, classe 1962, medico del reparto oncologico dell’Ospedale Maggiore di Novara e sommelier conosciuto in tutta Italia. La sua storia dà l’idea di quanto sia subdolo il COVID-19, una discesa agli inferi improvvisa. Ricorda il dottor Invernizzi: “Il 3 aprile sono andato al pronto soccorso perché la sera prima ero stato male a casa. Febbre, inappetenza, dolori addominali. La TAC mostra un Coronavirus in stadio avanzato. Ma io respiravo, a parte un po’ di affaticamento. Mi danno il Plaquenil e l’azitromicina e mi mandano a casa. Il 9 aprile mi trovo in cucina. La vista mi si oscura fino a diventare nera, svengo e cado a terra a peso morto. Mi faccio male alla testa, alla gamba, al costato, al ginocchio”. Il medico vive da solo in casa. “Ho avuto paura di morire, ho pensato che a questo giro non sarei riuscito a metterci una pezza. Invece sono riuscito a riprendermi quel tanto che bastava a chiamare i soccorsi. In ospedale mi hanno messo in una camera da solo e mi hanno trattato con i farmaci, senza casco per la ventilazione. Leggevo lo sgomento negli occhi dei miei colleghi che mi vedevano malato in quel letto. Tutti noi abbiamo sottovalutato questo virus, che può manifestarsi dallo starnuto fino a questa polmonite violenta. E dobbiamo stare attenti, perché il coronavirus non lo abbiamo ancora sconfitto”.
Inutile chiedere al medico sommelier come festeggerà la completa guarigione. Invernizzi è sicuro: “Mangerò italiano e berrò italiano. Ma per festeggiare la mia totale guarigione ho tenuto da parte una bottiglia di champagne!”. “L’11 marzo finisco il mio turno in azienda”. Fabrizio Giago, montatore di Mediaset, 60 anni, un vita di lavoro a Cologno Monzese. “Qualche giorno dopo comincio a star male, mi sale la febbre. Perdo gusto e olfatto, non ho più appetito. Il 20 marzo, il pomeriggio arriva a casa mia un’ambulanza. Entra un uomo in bianco, con la tuta integrale, coperto dalla testa a piedi. Mi sento salire una fame d’aria, arrivo all’ospedale San Gerardo di Monza. Dopo un’ora e una lastra ai polmoni mi dicono ‘positivo al coronavirus’. La mattina dopo mi sono svegliato, ma era come se fossi chiuso”. Per Fabrizio inizia un percorso d’angoscia: “Avevo il casco della pre-terapia intensiva. Mi sentivo come sospeso in un tempo infinito. Sonno e veglia erano come mischiati. Attorno a me non sentivo rumori, era come vivere in una bolla di sapone”.
Questa malattia lascia una persona da sola, priva dei suoi affetti, è un tunnel nel quale l’unico conforto sono gli occhi di medici e infermieri, unica parte visibile dell’armatura prevista dai reparti COVID-19. Ogni compagno di sventura diventa quasi familiare. Così è stato anche per Fabrizio Giago, che pesca nei ricordi di quei giorni terribili: “Quando ero in pronto soccorso, all’inizio, ricordo che ho sentito che una signora, la signora Dossena, era deceduta. Dopo mezz’ora mi hanno trasferito in reparto, era come se avessi voluto conoscerla. Poi mi ricordo del mio compagno di stanza al San Gerardo, un dirigente d’azienda di Milano, Otello Altieri, di cui purtroppo non ho più notizie dal 28 marzo. Poi, quando mi hanno trasferito alla cinica Zucchi a Monza per la riabilitazione, dopo un giorno hanno portato nella stanza dove mi trovavo un altro paziente con il casco per l’ossigeno, lo stesso che avevo io qualche giorno prima. Si chiamava Valsecchi di Lissone. Ricordo che faceva fatica a parlare, non riusciva nemmeno a rispondere al suo telefonino sul comodino, che squillava a vuoto in continuazione. Una notte entrano in stanza medici e infermieri, accendono le luci, mettono un separè tra il mio letto e il suo. ‘È morto’ sento dire a un infermiere e mi spostano quasi subito in un’altra stanza”. Passa qualche giorno, Fabrizio Giago può tornare a casa, dalla moglie e alla sua vita di tutti i giorni. Che però un po’ è cambiata. “Mentre ero in ospedale ho pregato molto. Lo faccio anche adesso”. Storie che s’incrociano, la TAC ai polmoni con quella smerigliatura sinistra, i tamponi, qualche messaggio mandato via telefonino ai propri cari. Guido e Fabrizio hanno battuto il nemico invisibile.
Anche grazie agli occhi operosi dei medici e degli infermieri che sono stati attorno a loro e a tutti i pazienti che il COVID-19 voleva prendersi. La vita come prima? No, qualcosa è cambiato anche dentro coloro che ce l’hanno fatta. Forse è ancora troppo presto per dire cosa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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