Il voto sulla Tav a Palazzo Madama e la narrazione della precarietà permanente, abilmente imposta da Matteo Salvini nelle ultime settimane, mandano in vacanza la politica dentro una bolla sospesa. Perché - proprio nel giorno in cui il Parlamento chiude i battenti per le vacanze estive - a quella che è una crisi di governo di fatto, non seguono i relativi passaggi parlamentari. Per scelta consapevole del leader della Lega che sta seguendo uno studiato spartito dell'escalation per preparare adeguatamente lo show down finale. Insomma, il punto non è «se», ma «quando» si aprirà la crisi. Non quella virtuale, ma quella reale e nelle aule parlamentari. Per ora, infatti, lo scontro all'arma bianca sulla Tav si limita ad aprire la strada ad un possibile rimpasto, con Salvini che continua nella sua opera di «brutalizzazione» del M5s, disposto a concedergli tutto e più di tutto pur di allontanare lo scenario di elezioni anticipate che - stando ai sondaggi di questi mesi - per il Movimento sarebbero un massacro.
Così, se in mattinata il capogruppo della Lega Massimiliano Romero interviene in Senato gettando le basi della crisi («oggi si apre una questione politica che condizionerà le scelte dei prossimi giorni e dei prossimi mesi»), Salvini decide di non affondare il colpo. Non parla dopo il voto sulla Tav a Palazzo Madama, cancella un comizio ad Anzio in programma alle 15 e prima di cena va da Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Un faccia a faccia di una quarantina di minuti, per chiedere un «cambio di passo» nell'azione di governo. Che, detta in politichese, è un rimpasto. Il leader della Lega, infatti, vuole la testa dei ministri Danilo Toninelli (Infrastrutture) e Elisabetta Trenta (Difesa). Ma sul tavolo ci sono anche le caselle della Giustizia (Alfonso Bonafede) ed Economia (Giovanni Tria). Sarebbero questi, secondo il vicepremier, i quattro snodi dove in questi 14 mesi di governo la macchina si sarebbe troppo spesso inceppata. Una richiesta che potrebbe avere il solo obiettivo di essere praticamente irricevibile per Conte, perché un rimpasto così corposo necessiterebbe di un nuovo voto di fiducia alle Camere.
La narrazione della precarietà, però, ha regole ferree. Così Salvini lascia Palazzo Chigi senza una parola e i suoi comunicatori si limitano a parlare di «incontro pacato e cordiale». La sceneggiatura della giornata, infatti, prevede che sia il Capo a scoprire le carte dal palco del comizio in programma a tarda sera nella piazza principale di Sabaudia. Anche questo serve ad alzare la tensione, ad alimentare il giusto pathos. «Aspettiamo il comizio di Sabaudia», ripetono come un mantra per tutto il pomeriggio i big della Lega. Insomma, il Vangelo secondo Matteo. Che recita il solito verso: «Qualcosa si è rotto. O si fanno le cose per intero e velocemente, o la parola torna al popolo. Stare a scaldare la poltrona non fa per me».
Il punto, però, è che anche in questa autoproclamata Terza Repubblica, la politica è fatta di luoghi. E una cosa è lanciare ultimatum dal Papeete Beach di Milano Marittima o dalla piazza di Sabaudia, altra è parlare in un'aula parlamentare. Anzi, dette nell'emiciclo della Camera o del Senato, certe cose hanno dieci, cento volte più forza di una sparata da comizio. E infatti il Quirinale sta seguendo ovviamente con molta attenzione gli ultimi avvenimenti, ma senza far scattare ancora il Defcon 1. D'altra parte, solo lunedì scorso il governo ha incassato proprio al Senato la fiducia sul Sicurezza bis. Quindi finché non ci sarà un interessamento formale del Colle, i venti di crisi si limiteranno alle spiagge di Milano Marittima e di Sabaudia. Insomma, «citofonare Mattarella». Non a caso, Giuseppe Conte si è subito premurato di far sapere a Salvini che il voto sulla Tav non interessava il governo ma impegnava il Parlamento.
Come a dire che, comunque fosse finita sulle mozioni, non sarebbe certo salito al Colle. Insomma, se Salvini vuole aprire la crisi dovrà farlo in prima persona. Né Conte, né Luigi Di Maio, né tantomeno Mattarella gli faranno il favore di dare il via alle danze al posto suo.
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