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Quanta vita c’è ​in quegli abbracci...

All’ospedale di Bologna i volontari "curano" i neonati prematuri semplicemente tenendoli stretti al petto

Quanta vita c’è  ​in quegli abbracci...

G iovanni è un fagottino di 900 grammi, più piccolo delle statuette di Gesù Bambino dei nostri presepi. Non ha una mamma e, per la verità, nemmeno il nome è veramente suo: glielo ha dato l’ostetrica che l’ha fatto nascere, giusto per poterlo chiamare in qualche modo, chissà se lo manterrà. Lo guardi, così minuscolo accanto ai monitor enormi, e ti chiedi in che modo la vita sia possibile in quel corpicino ancora troppo debole per venire al mondo. Eppure in quelle gambe fatte di nulla e in quel cuore grande quanto una nocciola c’è una grinta commovente. Una voglia di aggrapparsi, di sopravvivere, di sbocciare. Che poi è l’istinto più primitivo e naturale fra tutti. Il piccolo Giovanni parte nettamente in svantaggio rispetto agli altri neonati, ma ti rendi conto che, se non altro, il destino lo ha fatto capitare nel posto giusto. Siamo nel reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove nemmeno le luci al neon riescono a raffreddare l’ambiente. Tutto fra quelle pareti parla di vita. In mezzo alle culle dei «guerrieri» (così vengono chiamati i neonati pre termine) si aggira il piccolo esercito degli «specialisti degli abbracci». Sono i volontari della onlus CucciolO, l’associazione fondata da Michela Mian, che di bimbi prematuri ne ha avuti due, ora grandi. LE BRACCIA SALVA VITA Chi sono i professionisti delle coccole? Gente comune, avvocati, vigili, impiegati, genitori di ex prematuri, istruttori di fitness che mettono a disposizione ciò che hanno per avvolgere quei bimbi nati troppo presto: cuore, braccia e tempo. Li cullano, tutto qui. Ma probabilmente li salvano. Meglio di qualsiasi incubatrice e della più calda delle coperte. Non possono accarezzarli né baciarli, ma se li tengono lì, sul petto, come piccoli tesori da custodire. In cambio non riceveranno mai un grazie, raramente un sorrisino, ma c’è qualcosa che li porta lì a proteggere quegli «affarini». «C’è più che qualcosa - spiega Silvia, volontaria - Anzi, mi chiedo come mai qui fuori non ci sia la fila per coccolare i bambini. Io all’inizio scappavo dal lavoro per arrivare in reparto il prima possibile. Spesso ti trovi in una stanza con il piccolo in braccio. Il tempo sembra fermarsi, lui non piange nemmeno, non fa nulla, ma vieni avvolta da un silenzio caldo. Senti il battito del tuo cuore e senti che anche il suo si calma. Vuol dire che è tranquillo, che sta bene, che non mollerà». Se è possibile, il rapporto che si crea tra i volontari degli abbracci e i prematuri è ancora più intimo rispetto a quello mamma-bambino. Più intimo perché non è ovvio, non è scritto nel dna, non è implicito. Ma è autentico, gratuito e molto profondo. Lo leggi negli occhi delle volontarie che fuori dalla porta lasciano preoccupazioni, impegni e orologio per dedicarsi completamente a quei cuccioli impegnati con tutte le loro forze e i loro pochi grammi per conquistare una fettina di mondo. «Spesso le mamme dei prematuri - spiega Silvia - non stanno bene, oppure devono badare anche agli altri figli. Noi prestiamo le nostre braccia quando le loro non possono. Ma non vogliamo certo prendere il loro posto e questo lo capiscono immediatamente, appena ci conoscono». E anche le madri, che inizialmente arricciano il naso all’idea di lasciare il loro cucciolo appoggiato al seno di un’altra donna, presto si ricredono e accettano l’aiuto come il più prezioso dei doni. C’è una delicatezza fra le volontarie che esclude qualsiasi sospetto su un’eventuale invasione di campo e che non dà spazio a nessuna gelosia, per altro comprensibile tra le neo mamme, anch’esse premature per tanti aspetti. Nel reparto non si possono scattare fotografie. «Facciamo qualche eccezioni per i bambini abbandonati, gli esposti - spiega Vanna Bergami, del comitato direttivo della onlus - perché ci siamo resi conto quanto sia importante per i genitori che li adotteranno avere delle immagini dei loro primi giorni di vita. Le mamme adottive ci chiedono sempre come hanno reagito al loro primo biberon, come dormivano e cosa facevano. Noi vogliamo aiutarle a ricostruire quella parte dell’album di famiglia che non hanno vissuto». Tra i volontari ci sono giovani e meno giovani: c’è una parrucchiera in pensione, un’insegnante di cross fit, studentesse universitarie e aspiranti psicologhe. E poi c’è Dea, 53 anni, program manager dell’istituto di ricerca dell’università di Bologna. Per spiegare cosa l’ha spinta a coccolare bambini che mai vedrà crescere usa poche parole. Quelle giuste. «La mia è voglia di bene, da dare e ricevere. Ho una riserva di amore non esplicitato e lo voglio usare per colmare lo svantaggio di questi bimbi. Non sono medico e non posso aiutarli in altro modo se non abbracciandoli. Le loro mamme mi devono considerare una specie di prolunga delle loro braccia». A spiegare l’importanza di quella «prolunga» è Rosina Alessandroni, responsabile del reparto delle Cure intermedie di Neonatologia: «I prematuri non hanno mai conosciuto i confini della pancia della mamma, troppo piccoli per toccarli. Noi li avvolgiamo per contenerli e l’abbraccio dei volontari aiuta a farli sentire protetti. E anche a prevenire l’iperattività e i problemi caratteriali che spesso si portano dietro una volta cresciuti. Incredibilmente in loro resta una traccia di gratitudine, tanto che a loro volta alcuni diventano volontari da grandi». PERCHÈ FUNZIONA Che le coccole riescano ad amplificare l’effetto delle cure mediche è un dato scientificamente provato: i bimbi, che non hanno nemmeno capito da che lato sono voltati, riconoscono un respiro, una voce, un odore e hanno una mano (più grande di loro) a cui aggrapparsi quando devono fare esami e controlli clinici. «La marsupio terapia - conferma anche la psicologa Silvia Savini - ricostruisce il legame interrotto, ricrea quella simbiosi che dà al bambino la stabilità e il tempo per completare la sua organizzazione neuro comportamentale che non è riuscito a terminare nascendo prima». Anche le mamme dei prematuri si rendono subito conto dell’importanza di quell’abbraccio gratuito, arrivato da braccia estranee che in pochi secondi diventano le più familiari e vicine. A testimoniarlo è Matilde, 35 anni, mamma di Lea, nata alla 32esima settimana (otto prima del termine), di appena 1,1 chili. Ora la bimba ha messo su altri 500 grammi e Matilde torna a respirare. «Sono una dottoressa, lavoro come anestesista. Da medico leggo i monitor e calcolo i parametri vitali. Ma ammetto che da mamma è prevalsa l’emotività. Ero preoccupata, stanca, impreparata. Mi sono affidata a medici, infermiere e volontarie e ne avevo davvero bisogno. Gli abbracci e la banca del latte sono gesti di un amore immenso. Per me è stato fondamentale tutto questo calore umano, tutta questa delicatezza. Mi hanno aiutato a diventare mamma». Tra quei corridoi c’è uno spirito di squadra spontaneo e bellissimo. Là dove iniziano le storie di 800 prematuri ogni anno, scopri che anche in una giornata qualunque circolano le parole che si usano a Natale: dono, amore, maternità, famiglia.

Abbraccio.

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