Le seconde case e la prova inversa

La questione delle seconde case e del divieto di utilizzarle racconta meglio di tanti altri esempi una pericolosa deriva di questo governo

Le seconde case e la prova inversa

La questione delle seconde case e del divieto di utilizzarle racconta meglio di tanti altri esempi una pericolosa deriva di questo governo. Vediamola. Il primo decreto del presidente del Consiglio vietava esplicitamente il loro utilizzo. Si potrebbe questionare sul fatto che si trattava di una eccessiva limitazione della proprietà privata, per la quale, peraltro, si pagano imposte patrimoniali, come ad esempio l'Imu.

Ma il punto non è questo. È il secondo Dpcm che ci fa riflettere. In esso non è esplicitamente fatto divieto di utilizzo delle seconde case. Rispetto al primo, dunque, non c'è una previsione esplicita: è un'interpretazione successiva che hanno dato i tecnici di Palazzo Chigi. La sostanza non cambia, sia prima sia dopo il 4 maggio non si può disporre liberamente del proprio quartierino al mare o in montagna.

E veniamo dunque al principio che ci interessa. In una società libera è tutto permesso a meno che non sia esplicitamente vietato. In una società pianificata, e verrebbe da dire sovietica, nulla è permesso se non esplicitamente previsto. Ci troviamo in questa seconda situazione. La legge non prevede esplicitamente il pur odioso divieto di andare nelle seconde case, ma non prevedendolo esplicitamente, ciò non è concesso. Vi rendete conto che si tratta di un germe pericolosissimo. Le nostre libertà, compresa quella di detenere e utilizzare un immobile, non sono comprimibili a piacimento, ma soprattutto non sono per definizione limitate se non esplicitamente concesse. La parola chiave è proprio questa: concessione.

Il presidente del Consiglio, e con lui piccoli sceriffi locali che sono in ascesa, pensano di concedere ai cittadini ciò che è già loro. Il sindaco di Roma Raggi è riuscita a dire nei giorni scorsi che dobbiamo «meritarci» la frequentazione dei parchi pubblici. Insomma, ci troviamo nella drammatica condizione che non sappiamo bene come muoverci, è il caso di dirlo: e ci atteniamo non al principio liberale per cui possiamo andare ovunque non sia esplicitamente vietato, ma ci siamo ridotti a temere di fare ciò che non sia esplicitamente concesso. Roba da Mosca degli anni '60.

La giustificazione di tutto ciò nasce dall'emergenza sanitaria. È chiaro. Ma abbiamo l'impressione che ci sia qualcuno che sta prendendoci gusto. D'altronde la costruzione o il mantenimento di uno stato di emergenza è la chiave per chiudere una società. Un esempio che anticipa il coronavirus è quello dell'evasione fiscale. Invece di ridurre le imposte si preferisce il lockdown tributario. E cioè è tutto vietato ciò che non è permesso, e in quel campo si assiste all'aberrazione dell'inversione dell'onere della prova. Un'altra violazione palese delle nostre libertà: sono i contribuenti a dovere dimostrare la loro innocenza e non gli inquirenti a provare la loro colpevolezza. Ormai ci siamo abituati, ma si tratta di un mostro.

Quando der Kommissar Arcuri stabilisce il prezzo delle mascherine per legge, oltre a fare una sciocchezza dal punto di vista degli approvvigionamenti, apre una strada pericolosissima. Nella prossima emergenza economica perché non stabilire tetti ai beni di prima necessità? Perché non individuare un prezzo politico per alcuni servizi indispensabili? Insomma, la strada per la schiavitù è servita.

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