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Speranza e pazienza: salvati i primi bambini

Le chiavi? Il dispiego di energie planetario,l'uso delle migliori tecnologie e nervi saldi per sfidare l'imponderabile

Speranza e pazienza: salvati i primi bambini

Si dice che la speranza sia l'ultima a morire. Tante, troppe volte quest'affermazione è accompagnata da una smorfia foderata di scetticismo. Ma non può essere così perché la speranza è altro: una chiave che apre porte chiuse, una linea che scavalca l'orizzonte, una scintilla dove regna il buio. È quel che è successo nelle grotte della Thailandia, comunque questa storia vada a finire. Quattro ragazzini sono tornati alla luce ed è il secondo miracolo seguito alla scoperta sensazionale che i baby calciatori e il loro allenatore, un po' sprovveduto e molto eroe, erano vivi. Ancora vivi dopo un blackout di nove giorni. Oltre ogni limite. Oltre ogni aspettativa. Oltre ogni ragionamento.

Una collana di miracoli che però non sono arrivati come meteoriti da chissà dove, ma sono stati cercati, bramati, sollecitati in tutti i modi. Ci vuole fortuna, in circostanze drammatiche come queste, ma la fortuna, ci ricorda un altro proverbio, aiuta gli audaci: audentes fortuna iuvat, secondo l'antichissima formula originale. Il miracolo bisogna andarselo a cercare, come hanno fatto le autorità thailandesi che avevano individuato l'area di Pattaya Beach come l'unica isola di salvezza possibile in quel mare di fango e melma.

Il miracolo è stato costruito coralmente con un dispiego di energie planetario e commovente, ancora di più di questi tempi zeppi di muri, dazi e accordi stracciati nel cestino. Al miracolo hanno collaborato i sub, i medici, i volontari, i sommozzatori inglesi che per primi hanno avuto la visione dei dispersi di cui non si sapeva più nulla. E poi gli americani, i cinesi e tutti gli altri che sono accorsi da tutte le parti per dare una mano, per offrire un consiglio, per piazzare una bombola nei punti più tortuosi di quel labirinto allagato che è la strada verso il ritorno dei tredici dispersi.

Emozione. Tecnologia. Eroismo. Saman Kunan, uno dei Navy Seals thailandesi, è morto perché l'abnegazione non fa calcoli e non si misura in centimetri. Insomma, ha sacrificato la propria vita per un ideale più grande che è stato il motore della sua azione. Lui più degli altri, lui come molti altri. Gli svedesi hanno mandato le maschere speciali per respirare sott'acqua e i contadini della zona, una remota provincia ai confini con la Birmania, hanno accettato che i loro raccolti venissero spazzati via dall'acqua vomitata dal drago sotterraneo per asciugare le caverne e dare una chance in più ai tredici prigionieri dell'abisso.

Il rischio, che non è azzardo, è questo: correre contro il limite, contro il calcolo economico, contro la paura e contro il tempo che non c'è. Ci vogliono pazienza e nervi saldi per pescare il jolly quando tutti i countdown sono saltati. Altre volte non è andata così e il mondo intero ha bagnato lo stesso fazzoletto immaginando che forse le vittime di naufragi e catastrofi potevano essere salvate. Nel 2000, quando il Kursk finì in fondo al mare di Barents, la Russia rimase intrappolata nel proprio orgoglio di Stato e gli aiuti scattarono troppo tardi.

Oggi, sia detto senza retorica e pure fra errori, si è scritta una pagina epica: davanti all'imprevisto, ecco una risposta straordinaria superiore alle attese ma non alle infinite capacità dell'uomo. Anche se otto mamme pregano ancora che il miracolo arrivi fino a casa loro.

Con le facce (finalmente) ritrovate dei loro bambini.

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