Cronache

Street food estremo, ecco cosa mangiano gli stranieri a Roma

Tra piazza Vittorio e la stazione Termini esiste un circuito gastronomico parallelo, una vera e propria costellazione di aree ristoro improvvisate, dove gli stranieri acquistano per pochi euro cibi cucinati dai loro connazionali

Street food estremo, ecco cosa mangiano gli stranieri a Roma

Vi è mai capitato di perdervi all’Esquilino? È una cartina geografica di odori e sapori. È il quartiere simbolo dell’integrazione alla romana e del trionfo del caos. È la culla dello “street food non convenzionale”.

Tra piazza Vittorio e la stazione Termini esiste un circuito gastronomico parallelo, una vera e propria costellazione di aree ristoro improvvisate, dove gli stranieri acquistano per pochi euro cibi cucinati dai loro connazionali. È un mercato senza regole, non esistono scontrini, non si conosce la provenienza della merce e non ci sono garanzie sul rispetto delle norme igieniche. Nonostante questo, incuriositi dal fenomeno, abbiamo deciso di mapparlo e di azzardare qualche degustazione.

Proprio di fronte al mercato rionale c’è il punto di ritrovo della comunità senegalese. È mezzogiorno, e un nutrito gruppetto di persone attende in fila il proprio turno. A distribuire riso con carne, pesce e verdure c’è una donna con la testa avvolta da una foulard colorato. Ci guarda con diffidenza ma, appena capisce che vogliamo acquistare, ci permette di fare qualche ripresa. Ogni porzione costa 4 euro e gli ingredienti, ci assicura, “vengono tutti dal mercato”. Sono cucinati “a casa” e trasportati in dei grossi termos attorno a cui ruota una cambusa attrezzata di scodelle, vettovaglie di plastica e grossi mestoli con cui distribuire il cibo. Dopo aver conquistato la nostra porzione iniziamo a degustare. È un piatto molto piccante e saporito, il primo assaggio è sufficiente per capire che non arriveremo alla fine.

Le venditrici cinesi sono molto difficili da intercettare. Il cibo lo trasportano dentro a dei carrelli e passano veloci, da un esercizio all’altro, rifornendo i commercianti di piazza Vittorio di zuppe e riso. Ci mettiamo a seguirne una, proprio quando pensiamo d’averla raggiunta, la perdiamo di vista. Sparita, nel ginepraio di viuzze della Chinatown esquilina. Poi, in lontananza, la intravediamo e riusciamo ad avvicinarla. Non parla una parola di italiano, così tentiamo la sorte scegliendo il cibo in base al colore. Al prezzo di 1 euro portiamo a casa una zuppa tiepida e dolciastra, con alghe e bacche rosse. Una vera e propria “sbobba”. Dopo qualche cucchiaiata siamo già sazi.

La comunità nigeriana ha monopolizzando le balaustre di via Giolitti con decine di stand improvvisati. All’interno di buste e bagagli ci sono cibi dall’odore intenso e dall’aspetto non proprio invitante. Il menù del giorno prevede: “Semolino, riso, fagioli, pesce, carne di mucca e zuppe africane”. A darci qualche lume è Cynthia, una delle tante venditrici su strada. Lo fa senza perder tempo, mentre riempie una vaschetta di plastica con un’indecifrabile sostanza semiliquida. A lei gli affari vanno alla grande, prepara almeno 35-40 porzioni al giorno e ogni piatto costa dai 3 ai 4 euro. A fine giornata riesce ad incassare fino a 60 euro. “Mangiare qui – spiega un ragazzo del Niger – è più economico e poi è un modo per sentirci a casa”. La specialità che va per la maggiore è il “ghisad”, uno spiedino incendiario di frattaglie di pollo. Costa solo 1 euro. Lo sperimentiamo e le nostre papille gustative vanno a fuoco.

Sapori e dissapori. Il condominio di Carmen affaccia prorpio sul suq nigeriano. “La convivenza è pessima”, non perché “non si apprezzi il cibo nigeriano” ma perché “è venduto in mezzo alla strada senza rispetto delle norme igieniche”. Poi, aggiunge, “la vendita di cibo a basso costo fa concentrare qui persone che provengono da sistemazioni precarie, dalla strada, dai centri di accoglienza e via dicendo”. Persone che, oltre a mangiare, bevono birra “e alle sette di sera abbiamo una folla di ubriachi che ci staziona sotto casa”. Ci allontaniamo guardando bene dove mettiamo i piedi, il marciapiede è un campo minato di bottiglie di birra e cartacce. In alcuni tratti si avverte l’olezzo sprigionato dalle numerose toilette en-plein-air.

L’ultima tappa è il parco di Colle Oppio, a due passi dal Colosseo. Ad attenderci c’è la “frittata”, un piatto tipico dell’Ecuador con mais bianco, platano, patate, pomodori, cipolla e carne di maiale. Non ha prezzo, perché qui non si vende ma si condivide. “All’inizio non era così”, spiega Valentina Salerno del “Comitato cittadino Colle Oppio”. Prima “cibo e bevande venivano venduti abusivamente, il consumo di alcool era smodato e l’area degradata”. Poi, però, “ci siamo messi d’accordo con i residenti e ci siamo impegnati a lasciare in ordine e a rispettare le regole”, racconta Luis Lopez, rappresentate della comunità ecuadoregna. E adesso? “Organizziamo dei pic-nic assieme – sorride la Salerno – e possiamo dire che la mediazione culturale attraverso il cibo per il momento è riuscita”.

Chissà che non faccia scuola anche altrove.

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