L'Italia umiliata da chi preferisce i sussidi al lavoro

La rivolta di 183 mantenuti: "Tenetevi il lavoro, meglio i sussidi". Ma così finisce l'Italia

L'Italia umiliata da chi preferisce i sussidi al lavoro

Una società è fatta dagli individui che la compongono. E una delle prove più evidenti che l'Italia del nostro tempo è in una crisi profonda sta nel declino di quell'etica del lavoro che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ci aveva permesso di realizzare una tra le crescite più formidabili. In tal senso, il segnale che viene da Ginosa è davvero preoccupante. All'indomani dell'accordo di novembre tra la Natuzzi, i sindacati, il governo e le regioni Puglia e Basilicata (che prevedeva l'assunzione nella newco di tutti i 215 ex lavoratori precedentemente in esubero), soltanto 32 dipendenti hanno accettato il nuovo impiego; altri 183 hanno preferito continuare a ricevere i 1.200 euro lordi mensili dell'assegno di mobilità; e quindi hanno rifiutato la ricollocazione.

Una delle ragioni che ha indotto gli ex lavoratori della Natuzzi a non tornare in azienda può essere stata la volontà di tenere viva la vertenza con tale gruppo industriale che produce divani. Tutto questo, però, è accettabile? È giusto che, dinanzi a una reale opportunità di lavoro, si preferisca pesare sui conti pubblici, invece che accogliere la nuova sfida di un'azienda che, partendo dal Sud, si batte per restare competitiva a livello globale?

In una società italiana che sempre più si regge su logiche redistributive, l'elargizione di redditi non guadagnati non scandalizza nessuno. E quando la classe dirigente non mostra alcun rispetto per la ricchezza sottratta ai produttori, gratificandosi con mille favori e privilegi, non dobbiamo stupirci se vi sia chi preferisce un modesto assegno di mobilità al duro ritorno in fabbrica.

In sostanza, è il diffuso socialismo (quasi mai chiamato con questo nome) che da decenni domina la nostra economia ad avere minato così nel profondo la nostra mentalità. Ed è chiaro che si uscirà da tale triste condizione solo quando ci daremo istituzioni di altro tipo: anche prendendo spunto dal passato.

Quando nel corso dell'Ottocento i lavoratori iniziarono a organizzarsi nelle società di mutuo soccorso, ad esempio, chi lavorava si «tassava» liberamente per destinare una quota del proprio reddito a un fondo comune, con il quale veniva aiutato chi s'ammalava o perdeva il lavoro. In quel mondo non era immaginabile che un lavoratore finanziato dai contributi dei suoi pari rifiutasse un impiego, continuando a percepire quella forma di aiuto. Quanti versavano e quanti ricevevano erano ancora in un rapporto di vicinanza, che poneva un freno alla possibilità di situazioni analoghe a quella di Ginosa.

Abbiamo allora bisogno di un'altra classe dirigente, di un maggior senso di responsabilità e di un diverso rispetto per la proprietà altrui, ma anche di un nuovo modo di aiutare chi non ha il lavoro: il quale deve essere orientato verso una nuova

occupazione, e non già indotto a persistere nell'inattività. Non sono cose lunari, perché in larga parte d'Europa i sostegni ai disoccupati vengono meno quando si rifiuta un'offerta di impiego. Perché non facciamo lo stesso?

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