Nel software ideologico dell'intellettuale di sinistra medio c'è questa frase, che ripete ossessivamente: «Le frontiere sono obsolete». Hai voglia a rispondere che ogni comunità umana, a ogni latitudine, fin dalla notte dei tempi, è dotata di frontiere. Ti rispondono che oggi l'uomo è «progredito» e che non ne ha più bisogno: frontiere aperte per tutti. Chissà se il Coronavirus gli farà cambiare idea, giusta la battuta «un conservatore è un progressista che ha incontrato la realtà», anche se c'è da dubitarne, visto che proprio ieri il governo ha fatto sbarcare una nave con 274 immigrati. In ogni caso una delle lezioni dell'epidemia mondiale consiste nel mostrare come le frontiere siano necessarie, per proteggere la comunità, e come il loro controllo consenta di selezionare chi far entrare, e di escludere chi possa arrecare una danno, perché ad esempio portatore di un virus. Ora le frontiere con la Cina ovviamente esistono ma sono state evidenti le manchevolezze nei controlli, necessari a evitare l'ingresso o l'isolamento degli infetti. Mentre non vi sono frontiere tra l'Italia e gli altri Paesi della Ue aderenti a Schengen, e tutti possono entrare ed uscire. Il governo si è rifiutato del resto di sospendere il trattato ma è probabile che lo faranno, nei nostri confronti, i Paesi confinanti, a cominciare dalla Francia. Ai moderni Don Ferrante, che invece della tarda Scolastica che impediva al personaggio manzoniano di riconoscere la peste, parlano oggi la moderna Scolastica del politicamente corretto, quali altre lezioni saranno necessarie perché facciano finalmente i conti con la realtà? Realtà che prevede di riconoscere il fallimento, se non della globalizzazione, pure in fase di chiusura e di ritirata, certamente del globalismo, cioè della ideologia che ha accompagnato questo processo per decenni. A partire dalla caduta del Muro di Berlino si diffuse questa narrazione che ci raccontava di un mondo diventato «piatto», con il commercio globale e «libero», capace di regolare i rapporti tra le nazioni, con le frontiere diventate porose, quasi inesistenti, uomini e merci liberi di muoversi senza ostacoli. Un'illusione da cui mise in guardia il grande politologo statunitense Samuel Huntington ma che non fu ascoltato. C'è stato bisogno prima dell'11 settembre, poi della crisi del 2008, infine dell'epidemia mondiale del Coronavirus, figlio dell'inserimento della Cina nel grande mercato globale, per capire che in questo processo c'è qualcosa che non va. E che la natura umana non ha tanto bisogno di essere sempre in movimento e aperta, quanto di radicamento in una comunità, che a sua volta necessita di tutelarsi e di proteggersi. Con il globalismo il Coronavirus mette però in crisi anche i capisaldi della civiltà liberale e individualistica occidentale: in nome della protezione e della tutela collettiva, già molti italiani fin da oggi sono costretti a rinunciare alla libertà, a cominciare da quella di movimento. Ennesima dimostrazione della forza della paura che, come scriveva lo storico francese Jean Delumeau, scomparso di recente, è innanzitutto la paura che la città venga assediata, come titola un suo volume omonimo ormai classico: assediata dal nemico esterno, ma anche dalle epidemie.
Quando c'è la paura - e l'epidemia è uno dei fattori che più la scatena - l'essere umano è pronto a rinunciare a tutto, pur di salvare la vita. Un'amara, realistica lezione, sui limiti del liberalismo ma anche su quelli della civiltà moderna.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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