«Il sarkozysmo è il matrimonio, sul tavolo anatomico, quando si pratica la dissezione, la ricomposizione dei corpi, fra una macchina da cucire e un ombrello. È, insomma, un surrealismo. C'è del fascino nel dire ogni cosa e il suo contrario». La citazione è di Dominique de Villepin, l'altro enfant prodige dell'epoca di Chirac, l'eterno rivale di Nicolas Sarkozy, più bello, più intelligente, più colto, ma ahimè politicamente meno abile, il che in politica nei tempi stretti vuol dire tutto, ma in quelli lunghi è eguale a niente. La parabola di Sarkò è durata poco più di un decennio, il 2004 in cui diventa ministro dell'Economia del governo Raffarin, il 2016 in cui fallisce nel tentativo di vincere le primarie del centro-destra per potersi ricandidare alle presidenziali. Tutto quello che è successo dopo, compreso lo stato di fermo che lo ha appena colpito con l'accusa di aver incassato soldi dal poi defunto leader libico Gheddafi, poco aggiunge e niente toglie a quella parabola. La democrazia permette l'ascesa di uomini ridicoli perché la sua forza consiste nello scaricarli di lì a non molto. Ciò che può sembrare una tragedia nel primo caso, diventa farsa nell'atto successivo. Nel 2007, quando Sarkozy divenne al secondo turno presidente della Repubblica con il 53% dei voti rispetto alla socialista Ségolène Royal, che pure aveva preso il 46%, ci fu, anche in Italia, soprattutto in Italia, chi gridò entusiasta al miracolo. Siamo un Paese che, come nel calcio, invoca sempre l'acquisto dello straniero e che, in politica, non l'azzecca mai. La «lezione francese», si scrisse allora, accreditava al piccolo e nervoso neo-inquilino dell'Eliseo una vera e propria rivoluzione: ricomposizione della destra, seduzione di parte della sinistra, un'iniezione di fiducia elettorale nei suoi connazionali. C'era del vero, ma come sempre parziale: il primo elemento aveva a che fare con l'impresentabilità lepenista, il secondo con una sinistra fin troppo seducibile, l'ultimo con la giovane età di tutti i contendenti alle presidenziali (nel primo turno c'era anche François Bayrou) e con il loro utilizzo della cosiddetta antipolitica, viscerale, compassionevole, qualunquista, comunque retorica nel suo essere antisistema. I tre candidati erano insomma più impegnati a far dimenticare le loro origini ideologiche e i loro partiti di appartenenza che non a rivendicare l'essere parte integrante del sistema stesso. Vinse Sarkozy perché fingeva di essere tutto non essendo, appunto, niente. Di quel decennale interregno sarkozyano, noi italiani ricordiamo tre cose: il matrimonio con la nostra connazionale Carla Bruni, che faceva risuonare nei più anziani il memorabile calembour di Ennio Flaiano dedicato al romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse, e quindi, Bonjour stronsesse... Poi il sorrisetto derisorio scambiato con Angela Merkel a un vertice internazionale, a proposito della nostra credibilità economico-politica, infine il vergognoso sconquasso libico, non soltanto sotto il profilo bellico, ma per tutto quello che si è portato dietro a livello geopolitico. Adesso, ma il sospetto datava da allora, vengono fuori i finanziamenti elettorali, con relativa corruzione, per insabbiare i quali era necessario un intervento militare destabilizzatore e il tutto si ritorce contro chi lo incarnò, una nemesi degna del Dumas del Conte di Montecristo. Essere un parvenu della politica può aiutare, a patto di non abusarne, e la «tragedia di un uomo ridicolo» quale è stato in fondo Sarkozy aiuta a capirlo. Pensate all'enfasi anti-sessantottina di cui si servì per la scalata al potere.
Qualche domanda non retorica aiuta a schiarirsi le idee. Nel quarantennio post-Sessantotto, un trentennio circa aveva visto la destra al potere. Lo stesso Sarkozy aveva partecipato alla campagna presidenziale dalla posizione privilegiata di ministro degli Interni, il duplice mandato di Mitterrand si situava fra un Pompidou-Giscard e un doppio Chirac. Ritenere «lo spirito del '68» il responsabile dei mali del Paese poteva essere un comodo artificio retorico, purché di questo si trattasse, non di altro. Sarkozy non lo capì perché dietro di lui non c'era un'ideologia e/o un pensiero, ma i suoi istinti e i suoi impulsi. Era mediocre e aspirava alla grandezza, si riteneva un uomo d'azione che disprezzava lo snobismo delle élites, ma non desiderava altro che da quelle élites essere accettato, «le president bling bling» ubriacato dal profumo e dal potere dei soldi. Torniamo da dove siamo partiti, la tragedia che si ripresenta sotto forma di farsa. Sognare di essere Napoleone il grande, ritrovarsi a essere Napoleone il piccolo è stato, fra Ottocento e Novecento, una tentazione tipicamente francese e Sarkozy non ne è rimasto indenne.
Solo che la fisiognomica, pur non essendo una scienza, aiuta a comprendere: ritenere che sia la prima sia la seconda incarnazione potessero essere appannaggio di chi assomigliava al Louis de Funès di Le grandi vacanze era un po' troppo. De Funès era un genio. Ma della comicità. Non bisognerebbe mai confondere i ruoli. Tantomeno i copioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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