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Uccise, recluse e picchiate: la violenza in nome dell'Islam

Alcune storie sono note, altre quasi sconosciute. Ma la vita di decine di donne musulmane è un incubo

Uccise, recluse e picchiate: la violenza in nome dell'Islam

Secondo l'imam di Esfahan, in Iran, «le donne senza velo seccano i fiumi», tanto è grave la colpa di mostrarsi in pubblico in modo impuro. I rappresentanti delle comunità islamiche in Italia non si spingono certo fino a questo punto, eppure l'interpretazione degli obblighi religiosi verso il hijab (o anche il niqb , la velatura totale del viso e del corpo) di molti immigrati di fede musulmana può raggiungere l'estremismo più cieco.

La cronaca abbonda di minacce, violenze, persino omicidi commessi da mariti e padri per via dell'abbigliamento, o dei costumi in generale (avere amici o peggio fidanzati non musulmani, leggere libri sbagliati, essere indipendenti, moderne) delle donne di casa, troppo occidentalizzate rispetto ai canoni coranici. E la furia, esasperata dal radicalismo dei predicatori, sfocia nelle botte (se picchiate «delicatamente», ha spiegato il presidente del Consiglio di ideologia islamica del Pakistan, «non è considerata violenza») o nel sangue. Per il settimanale tedesco Der Spiegel almeno cinquanta donne musulmane in Germania sono state vittime di un delitto d'onore, mentre un report accademico citato dall'Huffington Post sulle comunità islamiche in Italia spiega che i mariti picchiano le mogli «per preservarne l'identità», come «forma di difesa dell'identità in un contesto culturale estraneo». Le donne musulmane in Italia non lavorano quasi mai, vengono segregate in casa e punite quando «accennano a una pur blanda ribellione».

Il primo caso è stato quello di Hina, dieci anni fa, nel bresciano. Una ventenne di origini pakistane uccisa barbaramente dal padre, Mohammed Saleem (30 anni di carcere), con la complicità dei parenti; sgozzata e sepolta nel giardino di casa con la testa rivolta alla Mecca, perché si comportava come una ragazza normale e aveva un fidanzato italiano invece di seguire il rituale del matrimonio combinato, dunque «non era una buona pachistana» come spiegò la madre Bushra (versione poi modificata dalla donna, «è stato un momento di rabbia, ha perso la testa» dice ora).

Un altro padre omicida per fede islamica è El Ketawi Dafani, marocchino, aiuto cuoco a Pordenone. Nel settembre 2009 ha ucciso a coltellate la figlia Saana, colpevole di essersi innamorata di un italiano con cui voleva convivere. Un delitto agghiacciante, come le parole della moglie dell'omicida, la madre della ragazza: «Perdono mio marito, forse ha sbagliato Sanaa». Un contesto di omertà assolutoria, anche tra le altre donne della famiglia verso la violenza giustificata dal radicalismo musulmano, che si ritrova di frequente negli episodi di questo genere. La figlia o la moglie che sfida i precetti islamici in fondo si merita una punizione, fosse pure la più brutale.

Se il delitto è il gesto estremo, la sottomissione femminile nelle mura domestiche dove domina la sharia è una condizione più usuale, che può esplodere nella violenza. Anche solo per il rifiuto di indossare il velo. É bastato questo, l'anno scorso a Mozzo (Bergamo), perché un uomo di origini marocchine piantasse un coltello in pancia alla moglie, musulmana non praticante, che oltre al niqab rifiutava altri ordini del marito: non salutare con un bacio sulla guancia gli amici, fare da mangiare per la moschea, comportarsi da musulmana timorata. «La prossima sarà tua mamma» aveva detto alla figlia dopo averle mostrato sul telefonino il filmato di una pecora sgozzata.

Di donne (mogli e figlie anche minorenni) picchiate per non voler indossare il velo, per desiderare i peccaminosi jeans, sono pieni gli archivi della cronaca locale. Altro motivo di percosse se non peggio è la purezza. «Se non sei più vergine, devo ucciderti» ha detto il padre-padrone, un egiziano di 61 anni, alla figlia prima di tentare di soffocarla con un sacchetto di plastica mentre dormiva.

L'uomo, scrive il magistrato dopo l'arresto, ha agito per «salvare l'onore della famiglia, considerando un disonore per la religione musulmana» il fatto che la ragazza di 17 anni avesse avuto «un rapporto sessuale con il fidanzato» non musulmano. Tanti piccoli califfati islamici tra le quattro mura di case italiane.

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