Il ministro Profumo si è appena guadagnato un nuovo record. Da sempre nel mondo della scuola le proteste si accendono al minimo cenno di riforma. Ma non era ancora mai successo che la contestazione scattasse solo per aver chiesto agli interessati se vogliono una riforma.
Il primato è arrivato una manciata di istanti dopo il lancio di un sondaggio sul sito del Ministero dell’Università in cui si chiede ai naviganti, con 15 domande, un parere sull’abolizione del valore legale del titolo di laurea.
L’idea l’aveva lanciata direttamente Mario Monti all’inizio del suo mandato da primo ministro, ma il provvedimento s’era inceppato per le divergenze tra ministri (prevedibili in un governo cosiddetto dei professori, sottinteso universitari). Da qui l’idea di lanciare una consultazione nel Paese attraverso il web. È bastato l’annuncio del sondaggio a far gridare all’unisono le componenti del mondo accademico, studenti inclusi. Qualche esempio pescato tra web e agenzie di stampa: gli studenti dell’Udu hanno chiesto «l’immediato ritiro della consultazione e non una operazione di mistificazione di massa». Fanno loro eco i docenti raccolti nell’associazione Anief: «Speriamo che non votino gli analfabeti», ironizza (?) il presidente Marcello Pacifico che sostanzialmente è sulla stessa linea degli studenti. Parla di «consultazione-truffa» invece Link-coordinamento universitario. Un concerto di critiche tese a sostenere che le domande sono tendenziose e mirano a precostituire un parere favorevole dell’opinione pubblica verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Può darsi. Ma dalle dichiarazioni è chiaro che il punto non è come sono formulate le domande, ma il provvedimento che potrebbe seguire al referendum. Perché fa tanta paura? Davvero, come dice l’Anief, «Certe iniziative hanno solo un preciso obiettivo: svilire il merito, su cui si fonda anche il criterio di assunzione nella Pubblica Amministrazione, come del resto sancito dalla Costituzione»?
C’è da dire, e sul Giornale ha già posto la questione il professor Franco Battaglia, che il concetto stesso di valore legale del titolo non è poi così chiaramente definito. Di sicuro però abolirlo significherebbe piantarla con la tradizionale logica dell’utile «pezzo di carta». Verrebbe di certo cancellato l’obbligo di avere una determinata laurea per partecipare a un concorso pubblico. Chi è contro questa scelta, come l’Anief, si chiede: «Perché allora gli studenti dovrebbero darsi da fare per ottenere un bel voto?». Ma sindacati e associazioni non temono di certo per il destino della meritocrazia. Lo rivela un’altra dichiarazione infuocata, quella di «Rete 29 aprile», gruppo di ricercatori precari secondo cui la vera intenzione del ministero è «la chiusura di numerosi atenei e un’inaccettabile classifica di quelli superstiti». Eccoli i giovani precari sempre pronti a sentirsi discriminati dall’università dei baroni, ma terrorizzati da una graduatoria che sveli al cittadino chi merita di più. Classifiche? Vade retro. Meglio un bel 6 politico per tutti gli atenei, i validi e gli inutili, e pazienza se significa difendere ogni avamposto, ogni sede distaccata creata per far posto ai figli dei baroni, mentre non c’è una sola università italiana nelle prime 100 del mondo. È la retorica della laurea per tutti, che in realtà non premia nessuno. Di sicuro non i migliori.
Senza il valore legale, gli atenei non dovrebbero più sfornare «pezzi di carta» da esibire ai concorsi, ma formare al meglio gli studenti, sapendo che il mercato ne giudicherà la preparazione nel merito, non sulla carta. Chi si iscrive a un’università piuttosto che a un’altra non lo farà più per accumulare crediti come punti della tessera fedeltà, ma perché saprà che lì riceverà i migliori strumenti per la vita e il lavoro. C’è il rischio che alcune università finiscano in serie B? Si impegneranno di più nel campionato successivo.
È la stessa logica che da anni impedisce di premiare anche economicamente chi ottiene risultati migliori nella pubblica amministrazione. E che ha spinto per decenni lo Stato a tenere nascosti i dati sugli esiti delle cure ospedaliere (ora sono stati messi su Internet ma in forma ancora poco comprensibile al pubblico e per il momento non accessibile da chiunque). I cittadini non devono sapere, altrimenti c’è il rischio che nessuno si rivolga più all’ospedale killer. Quindi valgono di più i posti di lavoro che la libertà di scelta e la salute dei cittadini.
Ma il caso dell’università colpisce ancora di più, perché dovrebbe essere la culla della meritocrazia. E invece ci sono docenti e ricercatori che ritengono «inaccettabile» far giudicare il proprio lavoro. E poi hanno il coraggio di dare i voti agli studenti.
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