A una settimana dalle commemorazioni dei quindici anni dall'Undici settembre 2002 (quando la Clinton è svenuta per un «colpo di calore») e a pochi giorni dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite che farà alzare ancor più il nervosismo nei controlli, i newyorkesi si trovano di nuovo nel vecchio incubo: il blast, lo scoppio che tutto sconvolge, seguito da una ventata atomica che sradica cose e corpi proiettandoli in un abisso di angoscia e disperazione. La televisione trasmette e ritrasmette il video girato da alcune telecamere all'interno di un edificio in cui la gente passeggia, le automobili sono ancorate nel traffico e subito dopo - senza audio, solo immagini - un turbine di stracci si disancora senza voce e vedi gli esseri umani che tentano di andare nella direzione della catastrofe: un grande acquario in tempesta, in cui si è materializzata l'ombra dello squalo. Chi è stato e perché? Su queste domande si gioca una partita di distinguo, di definizioni che fanno aumentare anziché scendere la tensione.
Secondo il sindaco è stata un'esplosione «non casuale» (cioè voluta) ma non possiamo parlare di terrorismo. Perché? Perché il manuale dice che l'etichetta terroristica va usata soltanto se è dichiarata la paternità dell'attentato. Per ora, nulla di tutto questo. Ma la rivendicazione potrebbe arrivare da un momento all'altro come quella delle otto pugnalate nel Dakota. E se l'Isis rivendicasse? «Allora sarebbe attentato», risponde con serietà lapalissiana De Blasio. Altrimenti occorre aspettare che le forze dell'ordine giungano a una conclusione. Palliativi, psicofarmaci in forma di placebo. Il fatto è che Nyc è ancora una volta sotto attacco e le bombe (una connessa a una caldaia sembra sia stata disinnescata) dimostrano che la città è un corpo grande e sempre vulnerabile.
La coperta degli agenti di polizia, dell'Fbi, e delle migliaia di investigatori privati fra la folla, è una coperta corta e nessuno può dire di essere salvo. Le linee della metropolitana sono sorvegliate con un numero doppio di agenti con cani e i passeggeri sono molto tesi. Sono spariti i suonatori di violino ebrei come quelli di Chagall dalle stazioni più affollate di South Manhattan e la gente va, senza correre ma senza perdere un attimo. Il prossimo edificio può essere la salvezza o la trappola, chi può dirlo. A Grand Central Station la folla che si vede nelle telecamere è più mobile, quasi frenetica, una folla irrequieta in attesa del treno. Il palazzo delle Nazioni Unite, che la maggior parte dei newyorchesi cordialmente odia come fonte di rischi, sudiciume e di costi, splende gelido nella sua luce azzurrina con le rampe d'ingresso rinforzate dalle truppe e intasate per i controlli. Gli abitanti di questa città, neri e asiatici, nativi americani e protestanti, cattolici latini e cattolici europei fiutano l'incertezza della vita a Manhattan nell'interregno fra due possibili presidenti, opposti fra loro.
La paura, l'incertezza, spesso il panico, si respirano insieme all'odore della pioggia e dell'adrenalina: i newyorkesi non stanno mai fermi, questa è la città dell'energia e dei minuti contati, ma in queste ore il moto frenetico delle molecole umane è registrato come una paranoia collettiva dalle telecamere poi chiamate a restituire i nastri per ricostruire il passato. Manhattan è sull'orlo di una terribile crisi di nervi.
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