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Cuffaro entra in carcere: dovrà restarci sette anni

Le preghiere alla Madonna, per tutta la mattina nella chiesa della Minerva a Roma, non sono bastate. Come non è bastata l’indicazione del rappresentante dell’accusa in Cassazione, che aveva chiesto di rifare il processo e ridefinire la pena al ribasso perché al massimo gli si poteva contestare il favoreggiamento «semplice», non quello ben più grave ai boss di Cosa nostra. E invece la Suprema Corte, a sorpresa secondo logica, ma da copione visto l’andamento dell’intero processo, ha reso definitiva la condanna del dibattimento d’appello, e ha inflitto all’ex governatore della Sicilia e senatore del Pid Salvatore Cuffaro sette anni di carcere, il massimo possibile. Una sentenza esemplare accolta in maniera altrettanto esemplare da Cuffaro, che si è consegnato subito ai carabinieri per essere portato a Rebibbia.
È calato ieri, dieci minuti prima delle 13, il sipario su un processo che di Cuffaro non porta neanche il nome, visto che riguarda le talpe della Dda di Palermo, uomini delle forze dell’ordine e collaboratori dei pm, accusati di avere costituito una rete di informazioni che ha dato notizie delle indagini in corso a personaggi in odor di mafia. Cosa c’entra con tutto questo l’ex governatore siciliano? C’entra, per l’accusa, perché, tramite quello che all’epoca dei fatti contestati era uno stimato politico e collega di partito (Mimmo Miceli, poi a sua volta processato e condannato), Cuffaro avrebbe fatto sapere al boss mafioso Giuseppe Guttadauro che in casa sua erano state piazzate delle microspie. E c’entra perché avrebbe avvertito un altro personaggio poi rivelatosi alter ego di Bernardo Provenzano, l’ex re delle cliniche private Michele Aiello (anche lui condannato e portato in carcere ieri), che gli uomini delle forze dell’ordine che li informavano delle indagini in corso - il maresciallo della Dia e ex braccio destro del pm Antonio Ingroia Giuseppe Ciuro, e il maresciallo del Ros Giorgio Riolo – erano stati individuati. Invano Cuffaro si è difeso, ricordando che quelle persone, all’epoca dei fatti, erano solo stimati professionisti. I giudici non gli hanno creduto.
Esemplare, lo hanno riconosciuto persino suoi storici nemici politici, il comportamento di Cuffaro. Che atteso il verdetto nella sua casa romana tra un via vai di amici e una lunga sosta in preghiera nella chiesa della Minerva, ha commentato pacato: «Sono stato un uomo delle istituzioni e ho un grande rispetto della magistratura che è un’istituzione, quindi la rispetto anche in questo momento di prova. Questa prova non è facile, ma ha rafforzato in me la fiducia nella giustizia e soprattutto ha rafforzato la mia fede. Se ho saputo resistere in questi anni difficili è soprattutto perché ho avuto tanta fede e la protezione della Madonna. Adesso affronterò la pena come è giusto che la affronti un uomo delle istituzioni. Lo lascerò come insegnamento ai miei figli». Quindi via, con tre carabinieri, a bordo di una Punto grigia, alla volta della caserma Farnese, aspettando l’ordine di esecuzione della pena, arrivato nel pomeriggio. Un bacio alla moglie Giacoma, al figlio Raffaele, alla figlia Ida volata da Palermo per salutarlo. Poi, al seguito i suoi amati libri, l’ingresso a Rebibbia, da una porta secondaria: «Mi adatterò – le sue ultime parole prima di entrare in cella, piano terra, reparto G12, guardato praticamente a vista – a questa terribile esperienza. Sono amareggiato ma sconterò la pena consapevole di avere sempre lavorato per il bene delle istituzioni».
Stupore nel mondo politico, soprattutto da parte di chi conosce Cuffaro da sempre. Onore al merito e rispetto anche da sinistra, per la decisione di consegnarsi. E non finisce qui. In barba al principio giuridico del ne bis in idem, l’impossibilità cioè di processare due volte una persona per lo stesso reato, Salvatore Cuffaro, sempre a Palermo, è ancora alla sbarra, per concorso esterno in associazione mafiosa. Gli episodi contestati sono gli stessi del processo che si è appena chiuso. Per lui, con la riduzione di pena prevista dal rito abbreviato, i pm hanno chiesto dieci anni. Fosse un imputato qualunque, hanno spiegato in requisitoria, meriterebbe qualche attenuante. Ma siccome Cuffaro è un potente, anzi «il» potente di Sicilia per antonomasia, niente sconti.

Neanche quelli che toccano a tutti gli altri cittadini della Repubblica italiana.

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