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Dalla culla alla tomba: torna il welfare del Duce

Infanzia e pensioni, l’eredità del Ventennio nel moderno statalismo. Ma la deriva assistenzialista è un rischio

Dalla culla alla tomba:  
torna il welfare del Duce

Non è affatto vero, come è stato sostenuto, che la manovra finanziaria di mezzo agosto non abbia un padre. Ce l’ha e come. E non è un padre molto simpatico. Si chiama statalismo. È l’erede di quella «economia mista» realizzata dal fascismo e transitata e sopravvissuta nell’Italia repubblicana.
Dopo una brevissima parentesi liberista - legata al nome di un grande economista, Alberto De Stefani - il fascismo abbandonò la politica di «restaurazione finanziaria» che aveva fatto proprio uno dei miti della «destra storica», il pareggio del bilancio, che il ministro De Stefani poté orgogliosamente dichiarare raggiunto il 2 giugno 1925.

Il nuovo obiettivo del fascismo era la «trasformazione dello Stato» (l’espressione è di Alfredo Rocco) e, con essa, la costruzione di un regime lontano dallo spirito dell’Italia liberale: un regime di tipo autoritario che facesse leva sul «consenso» delle masse garantito da strutture che assicuravano la «fascistizzazione» del Paese attraverso il controllo della vita e delle attività, lavorative e intellettuali, del cittadino.

La meta venne raggiunta non solo attraverso interventi sulla struttura istituzionale e organizzativa dello Stato, ma anche passando attraverso la politica economica, finanziaria, sindacale. Fra il 1925 e il 1929 il fascismo gettò le basi per la costruzione del cosiddetto Stato corporativo, che ebbe, come presupposti e capisaldi, la liquidazione del sindacalismo autonomo, la legge sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro (o legge sindacale), l’istituzione delle corporazioni, la «Carta del lavoro», l’istituzione della magistratura del lavoro, ma anche una legislazione sociale che riguardava l’infanzia, il mondo femminile, la famiglia.

Il corporativismo fu, comunque, il grande tema degli anni trenta. Se ne discusse come dottrina economica, ma anche come modalità di organizzazione dello Stato capace di rispondere alle sfide innescata dalla grande crisi del 1929 e alle conseguenze della recessione sull’economia europea. Nacque l’idea di creare uno «Stato nuovo» fondato sui sindacati o, addirittura - come sostenne Ugo Spirito con la proposta di una «corporazione proprietaria» - costruito sull’identificazione fra individuo e Stato propria del comunismo sovietico.
Sempre più lontano - e, anzi, ad esso contrapposto - dallo spirito dello Stato liberale, il fascismo, durante gli anni Trenta, accentuò la presenza della mano pubblica nell’economia nazionale creando una miriade di aziende autonome ed enti pubblici. Si poté parlare, addirittura e non senza ragione, di «Stato imprenditore». Nel 1937, con la trasformazione dell’Iri, creato quattro anni prima per arginare i contraccolpi della grande crisi, in istituzione permanente, lo Stato, di fatto, divenne proprietario di un impero industriale, che, alla vigilia del conflitto mondiale, grazie alle finanziarie di settore, controllava il 90% della flotta mercantile, il 75% della produzione di ghisa, il 45% di quella siderurgica ed era presente nei settori della telefonia, della cantieristica, dell’industria meccanica, dell’industria elettrica.

Contemporaneamente alla trasformazione in Stato imprenditoriale, il fascismo realizzò di fatto uno Stato assistenziale, che seguiva la vita del cittadino, per così dire, «dalla culla alla tomba», attraverso le organizzazioni giovanili, il dopolavoro, l’opera maternità e infanzia e via dicendo. Ed è questa - l’idea dello Stato assistenziale e dello Stato imprenditore - la vera eredità lasciata all’Italia postfascista. Un’eredità pesante e negativa. Lo statalismo e l’interventismo statale sono, checché se ne voglia dire, la negazione del liberismo economico e del liberalismo politico. La manovra economica di ferragosto, anziché interventi strutturali in chiave liberale, ha privilegiato la leva fiscale e la protezione di interessi corporativi, come, per esempio, la difesa delle pensioni di anzianità e il rifiuto di innalzare l’età pensionabile. E non è cosa bella.

Né, tanto meno, utile.

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