«Cultura e impresa? Un matrimonio possibile»

Spesso i Comuni elargiscono fondi senza bandi e magari senza passare in Giunta

«Cultura e impresa? Un matrimonio possibile»

Un’utile provocazione per molti. Un gioco da salotto per alcuni. Un buco nell’acqua per altri. Una nota stonata, infine, per i suoi detrattori incalliti. Stiamo parlando di Alessandro Baricco, lo scrittore torinese divenuto famoso grazie a romanzi come Castelli di rabbia, Oceano mare e Seta e oggi opinionista di «Repubblica». Il 24 febbraio scorso uscì sulle pagine del quotidiano romano un lungo e articolato «attacco» al sistema culturale italiano. Vista la crisi che inevitabilmente richiede tagli e sacrifici, sostiene Baricco, perché non approfittare dell’occasione e pensare a un «cambio di passo» nel modo di gestire lo spettacolo e la cultura del nostro Paese. Facendo finalmente i conti col mercato e distribuendo le risorse residue nella formazione dei giovani a una fruizione consapevole della cultura. Apriti cielo! Già il giorno dopo sovrintendenti, attori e registi erano tutti lì in prima fila a stigmatizzare le parole di Baricco. «È un suicidio culturale», «lo Stato deve proteggere lo spettacolo», «Senza i soldi pubblici si va tutti a casa e si perdono decine di migliaia di posti di lavoro». Insomma si è scatenato il dibattito. A qualche mese di distanza proviamo a guardare nel particulare della nostra città e chiediamo a Pietro Longhi, attore, impresario teatrale e soprattutto presidente dell’Agis Lazio, qual è la situazione e quali le possibili soluzioni a una crisi che non è solo economica.
Quella di Baricco è stata una lucida provocazione o un gioco da salotto?
«La definirei piuttosto una riflessione ben articolata e ricca di spunti. Forse il titolo era fuorvianti («Basta soldi pubblici al teatro, meglio puntare su scuola e tv», ndr). La sua analisi del settore, soprattutto per quanto riguarda le fondazioni lirico-sinfoniche, semmai diceva che c’era bisogno di maggiori investimenti nella scuola e nella televisione. Cosa che noi diciamo da decenni. Ha soprattutto sdoganato il termine impresa».
Non mi sembra poi una grande conquista.
«E invece lo è. Tenga conto che per il Fisco siamo imprese con tutto ciò che concerne. Però la stranezza è che se lo siamo a livello tributario non lo siamo come settore economico. Nel nostro Paese si aiutano, e giustamente direi, le imprese in crisi (l’esempio classico è la Fiat). Mentre per lo Stato non siamo impresa proprio quando abbiamo bisogno di un aiuto. Le porto un esempio concreto che ci riguarda da vicino. La Camera di Commercio di Roma ha stanziato 180 milioni per le aziende romane in crisi. Le nostre imprese sono regolarmente iscritte alla Camera di Commercio ma non rientrano in questo “pacchetto anticrisi”. Questa anomalia andrebbe spiegata.
Insomma rimane l’anomalia dello spettacolo nel nostro sistema economico.
«Se è pur vero che gli artisti vivono di precarietà non è detto che questa debba trasformarsi in una micidiale spada di Damocle. Nonostante la protezione previdenziale, attori, ballerini e musicisti non hanno il sussidio di disoccupazione. Cosa garantita, invece, ai lavoratori di altri settori della piccola e media impresa, come delle grandi fabbriche».
Quindi torniamo a Baricco. Ma per contraddirlo. Gli aiuti, quindi, servono.
«Non è questo il punto. Quello che oggi è sotto i nostri occhi è un penoso rivolgersi col cappello in mano alle amministrazioni locali. Enti che, però, la crisi economica ha reso ancor più poveri di quanto già non fossero. E soprattutto enti in cui i capitoli di spesa spesso non sono così trasparenti come il rigore e il buonsenso richiederebbero. Assessori e presidenti di commissioni hanno dotazioni che non passano in giunta o in consiglio e che nessuno può controllare e queste dotazioni invece di diminuire, vista la crisi, stranamente aumentano. È un fatto gravissimo».
Nel vostro settore il rapporto con la politica, quindi, rischia di diventare un’arma a doppio taglio.
«Basti pensare al fatto che dietro la voce “associazione culturale” può nascondersi di tutto. E un assessore o un politico che vanta un fondo di disponibilità può senza alcun problema finanziare una associazione di questo tipo. Salvo poi scoprire che l’associazione in questione altro non è che un ristorante mascherato per non pagare le tasse. Eppure anche qui basterebbe poco per correggere questa cattiva abitudine».
E cioè?
«Basterebbe costringere le associazioni culturali a dimostrare di versare i contributi all’Enpals per i suoi dipendenti. È ovvio che questo frenerebbe i malintenzionati e gli assessori senza scrupoli».
Insomma manca una cultura di impresa proprio nelle imprese culturali.
«Il nostro piccolo mondo è gravato di tante ombre. La cultura di impresa infatti significa prima di tutto un corretto rapporto tra pubblico e privato. Non si capisce ad esempio perché spettacoli che potrebbero tranquillamente stare nel cartellone di sale private vanno invece ad arricchire il programma di teatro pubblici».
E dove è l’incompatibilità? Un teatro pubblico deve solo ospitare roba noiosa o d’avanguardia o altamente sofisticata?
«Ospitare uno spettacolo di sicuro richiamo, che potrebbe tranquillamente correre sulle proprie gambe, è uno spreco di risorse. Il teatro pubblico dovrebbe svolgere un ruolo di promozione».
E da noi, a Roma, ci sono esempi virtuosi?
«C’è il teatro dell’Opera, per esempio. E c’è Santa Cecilia. Abbiamo iniziato da tempo un dialogo costruttivo proprio con la fondazione lirica. I biglietti “last minute” per i giovani, ad esempio. E l’utilizzo dell’orchestra giovanile della fondazione e gli allievi del corpo di ballo fuori dalla cornice dell’Opera. Portare questi giovani nei teatri di periferia è una promozione della musica e del balletto. E i risultati ci hanno premiato».
E lo stabile? Anche il teatro di Roma è chiuso nel suo recinto? Eppure ha costituito i cosiddetti teatri di cintura.
«Giusto finanziare teatri di periferia per offrire prodotti culturali a basso costo. Ma la cultura d’impresa dimostra che non sempre dietro le buone intenzioni seguono i fatti.
In che senso?
«Prendiamo l’esempio del Teatro del Lido di Ostia. Prende un consistente finanziamento pubblico. Eppure non ha un cartellone né una programmazione costante. A poche centinaia di metri esiste un teatro (il Nino Manfredi) che senza un euro di contributo ha ben 1300 abbonati. E sul suo palcoscenico salgono professionisti di spessore come la Villoresi, Gazzolo, Mazzamauro. Qualcosa non quadra, quindi. Ed è per questo che abbiamo proposto all’assessore di mettere a bando la gestione di questi teatri di cintura. Solo così è possibile verificare la capacità di gestire questi luoghi con profitto».
Quindi non è un dramma poi così grande il taglio del Fus.
«Anche lì bisogna essere cauti con i giudizi. La libertà d’impresa va bene, ma è troppo rischioso assecondare in maniera corriva i gusti del pubblico».
Vale a dire?
«Con i tagli delle sovvenzioni, il privato per non rischiare si affiderà d’ora in poi a spettacoli di basso costo e di format televisivo. Spettacoli usa e getta. Dove si ripetono i meccanismi televisivi perdendo la specificità del teatro».
È passato quasi un anno dal vostro appello all’Antitrust per una concorrenza più trasparente tra teatro pubblico e teatro privato. È cambiato qualcosa da allora?
«Alcune cose sono sicuramente migliorate. Penso, ad esempio a Zètema. Ai tempi di Veltroni sindaco, Zètema si occupava di tutto scegliendo anche spettacoli e compagnie per la Notte Bianca. Ora questo non accade più e Zètema si limita a un prezioso contributo di logistica e organizzazione e laddove ha bisogno di un contributo artistico lo mette a bando. In questo senso è stato prezioso il contributo del suo nuovo presidente Francesco Marcolini».
Questo per quanto riguarda le cose buone. E le cattive?
«L’esempio più chiaro è l’Auditorium Parco della Musica. Le imprese dello spettacolo di Roma e provincia pagano la tassa di iscrizione alla Camera di Commercio e quest’ultima è tra i soci dell’Auditorium e lo sovvenziona. Questo è un paradosso pericoloso, visto che l’Auditorium è in diretta concorrenza con chi fa spettacolo a Roma».
Quali consigli si possono dare per aiutare concretamente il settore?
«Intanto si potrebbe allargare il credito d’imposta come già si fa per il cinema e poi si potrebbe abbassare l’Iva equiparando il nostro al settore dell’editoria. In fondo abbiamo la stessa funzione sociale. Oppure si potrebbe anche pensare di evitare il costo enorme di avere un presidio di vigili del fuoco durante le rappresentazioni. I cinema non devono averli e noi sì, perché? In fin dei conti le rare volte che si sono sviluppati degli incendi (Fenice e Petruzzelli di Bari) le sale erano chiuse. Bisogna insomma abbassare la pressione fiscale o lasciare il contributo pubblico senza tagli. Poi però non dobbiamo lamentarci delle intromissioni della politica, dispensatrice di quei contributi».
Come mai all’estero gli spettacoli durano anche anni (Broadway, Londra) e da noi non più di 15 giorni?
«All’estero sono le persone che si spostano per andare a vedere gli spettacoli. Gli impresari possono così confezionare grandi allestimenti, forti anche di una accoglienza turistica adeguata. Noi siamo rimasti alla cultura della Commedia dell’Arte. La nostra tradizione non ha fatto un passo dalla preponderanza della compagnia di giro. Agile, fatta di poche persone, che percorre lo Stivale con poche repliche (se ce ne sono) a tappa ed è così che muore la cultura teatrale e la drammaturgia. A forza di limitare i costi si arriva dritti dritti al cabaret televisivo e non ci si sposta da lì. Il nostro sta diventando un teatro locale, magari dialettale. I costi si abbassano e spesso sono gli stessi amministratori locali che preferiscono finanziare spettacoli di compagnie amatoriali piuttosto che quelli di professionisti (evitando così di versare soldi all’Empals). Bisognerebbe allora evitare sprechi e conflitti di interessi, che favoriscono il teatro pubblico».
Dal punto di vista propriamente culturale la funzione del teatro pubblico è comunque quella di osare un dialogo costruttivo tra tradizione e innovazione. Penso a grandi artisti internazionali che non avrebbero visibilità nelle sale private o a grandi produzioni come il «Pasticciaccio» di Ronconi.
«È ovvio che la funzione del teatro pubblico lì è rispettata. Ma io penso anche a un esempio mai rimpianto abbastanza come il Piccolo di Milano di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Lì non solo c’era cultura d’impresa e grandezza intellettuale. Lì c’era una squadra di persone che amava il proprio lavoro e che sposava il progetto. Le loro “agili” produzioni giravano il mondo (un esempio su tutti l’Arlecchino con Ferruccio Soleri). Il teatro deve arrivare a tutti. Il livello culturale dipende anche dal nostro lavoro. Soleri, Romolo Valli e Paolo Stoppa hanno saputo far innamorare i giovani al teatro.

E oggi?»
Già, oggi?
«Oggi i nostri siti archeologici ospitano gli spettacoli di Battiato e Arbore. Snobbando il dramma antico. Basta vedere il cartellone di Ostia Antica per rendersi conto che qualcosa non funziona».

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