Cultura e Spettacoli

Gordimer, l'apartheid si vince scrivendo

Riservata, epica, tenace. Vinse il Nobel. Ma il suo orgoglio era la battaglia per i diritti dei neri nel suo Paese

Gordimer, l'apartheid si vince scrivendo

La scrittrice sudafricana Nadine Gordimer, da tempo malata di cancro al pancreas e scomparsa a 90 anni «serenamente nel sonno» nella sua casa di Johannesburg, non amava scrivere di sé. Raramente indulgeva nei dettagli della propria vita privata e spesso gli unici riferimenti erano riservati all'infanzia e all'adolescenza. Quando però regalava un suo ricordo, questo diveniva indimenticabile anche per il lettore. Nei saggi, conferenze e articoli raccolti nel volume Tempi da raccontare - Scrivere e vivere, in uscita per Feltrinelli il prossimo ottobre, descrive ad esempio il momento più bello della sua vita. Quel momento non fu quando ricevette la notizia dell'assegnazione del Nobel, nel 1991, per la sua «magnifica scrittura epica». Non fu la pubblicazione di nessuno dei suoi quindici romanzi, delle numerose raccolte di saggi e racconti.

Non fu nemmeno una delle innumerevoli volte in cui come membro dell'African National Congress (ANC) scrisse contro i bianchi e le loro regole segregazioniste, sempre inimicandosi l'establishment fino ad arrivare alla messa al bando, in Sudafrica, di alcuni suoi romanzi, come Un mondo di stranieri (1958) e La figlia di Burger (1981) e sempre rischiando in prima persona. Motivo per cui quando Nelson Mandela venne scarcerato chiese, tra i primi, di vedere proprio lei, e la scelse per accompagnarlo a ritirare il Nobel per la Pace: «Tra le cose di cui andava più fiera» ricordano in un comunicato i figli Hugo e Oriane, «il fatto di aver contribuito con la sua testimonianza a un processo nel 1986 a salvare la vita a 22 membri dell'African National Congress accusati di tradimento».

Figlia di un orologiaio ebreo lituano, la Gordimer cominciò a scrivere a nove anni, quando imparò a studiare il genere umano stando in negozio con il padre: quale migliore materiale per uno scrittore dei clienti di una gioielleria e dei migranti neri che la circondavano nell'East Rand fuori Johannesburg? Pubblicò il suo primo racconto, The quest for seen gold, a soli 15 anni su un periodico locale e la scrittura mitigò la solitudine della sua infanzia, ma non fu nemmeno quello a darle la felicità più grande. Eppure, nessuno ha consegnato al mondo il ritratto di un Paese tormentato come il Sudafrica con la lucidità della Gordimer. Il conflitto interiore del colonnello Bray di Un ospite d'onore (1970); il magistrale capovolgimento dei ruoli, e del senso del mondo, in Luglio (1984) tra la famiglia bianca liberale degli Smales e il loro servitore nero; l'insanabile opposizione tra terrorismo rivoluzionario e battaglie progressiste, impegno politico “pubblico” e familiare “privato” in Nessuno al mio fianco (1994) o le afflizioni della giovanissima democrazia sudafricana post-apartheid in cui già si annida il virus della corruzione di Ora o mai più (2012) sono il risultato di un profondo percorso morale in cui la coerenza non è mai venuta meno: «Una battagliera fantastica per tutti i diritti umani e civili», la ricorda Inge Feltrinelli. «Ha avuto molto coraggio nell'affrontare anche la malattia. Anche il suo addio alla scrittura è stato un atto di coraggio» (la Gordimer è sempre stata legatissima anche all'Italia, il primo Paese a tradurla).

In Un'infanzia sudafricana, il primo saggio di Tempi da raccontare, la Gordimer descrive come la sua città natale piena di miniere d'oro, Springs nel Transvaal, sia punteggiata di collinette di polvere di carbone che nel tempo, non si sa come né quando, hanno preso fuoco. E come brucino, per anni, come un piccolo inferno in terra. La metafora che le accomuna al destino del Sudafrica è chiara: il Paese non smette di bruciare, nonostante la democrazia. E Nadine Gordimer non si è mai tirata indietro di fronte alle denunce che ha creduto necessarie al bene del Paese. La sua figurina snella, i suoi occhi di cristallo, sebbene già appannati dalla malattia, non si sono trattenuti dallo sprigionare indignata energia per condannare lo stesso ANC e il presidente Jacob Zuma. Dalla casa in cui aveva più volte ospitato proprio Mandela e DeKlerk per discutere il post-apartheid, ha lanciato più di uno strale contro la nuova corruzione sudafricana ispirata dall'avidità, proprio il mese scorso, contro l'ultima proposta di legge a favore della censura: «Una proposta inaccettabile se si pensa a quanta gente ha sofferto per eliminarla».

Per questo forse, perché il pubblico l'ha infiammata tanto spesso, ha deciso di consegnare al privato il suo ricordo più dolce. In Tempi da raccontare, il nome del marito Reinhold Cassirer, gallerista d'arte scomparso nel 2001 dopo esserle stato accanto per mezzo secolo, compare solo, oltre che nella dedica, verso la fine del libro, per ricevere il tributo migliore: fu lui a regalarle il momento più bello della sua vita.

Appena dopo che lei e Cassirer si erano sposati, ad una festa, negli anni '50, si ritrovò «In piedi, accanto ad una donna che non conoscevo, entrambe amabilmente dotate di un drink. Lui apparve sulla soglia. La donna si girò verso di me ed esclamò eccitata: “Chi è quell'uomo divino?”, risposi: “Mio marito”».

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