Cultura e Spettacoli

La lingua che non c'è spiega cos'è il linguaggio

Frederic Werst scrive un manifesto contro l'estinzione degli idiomi. Appassionante come un romanzo storico e molto più profondo di un fantasy

La lingua che non c'è spiega cos'è il linguaggio

Dice Mallarmé che «tutto, al mondo, esiste per finire in un libro». Considerazione corretta, ma riduttiva, poiché sappiamo bene come nei libri finisca in abbondanza anche ciò che non esiste, o meglio ciò che esiste in altri mondi. Una volta «scoperti», infatti, i filoni del fantasy e della fantascienza si sono rivelati pressoché inesauribili. Pur non potendosi dire del tutto altri . A renderli fittizi resta un piccolo particolare per nulla trascurabile: la lingua del loro artefice che è e resta umana, troppo umana. E talvolta furba, troppo furba. In Lontano dal pianeta silenzioso C.S. Lewis attribuisce al protagonista Elwin Ransom doti da filologo talmente avanzate da comprendere l'idioma dei marziani; in Noi marziani Philip K. Dick dona ai nostri lontani (dis)simili la facoltà di esprimersi in una specie di pidgin english , tanto maccheronico quanto universale; nella saga Guida galattica per gli autostoppisti Douglas Adams s'inventa l'auricolare miracoloso «Pesce di Babele»: te lo infili nell'orecchio e risolvi tutti i problemi di comunicazione... Almeno il professor Tolkien s'è preso la briga di compitare a tavolino una personalissima Babele a uso e consumo delle popolazioni della Terra di Mezzo. Salvo poi raggruppare il tutto, dall'Adûnaic al Vanyarin (in ordine alfabetico) sotto la bandiera di un Commonwelth british al cento per cento...

Comunque Lewis, Dick, Adams e Tolkien sono scusati, poiché il parlato dei loro alieni assortiti e dei loro hobbit & company non è centrale, nelle rispettive narrazioni. Si tratta di fantascienza e di fantasy, appunto, non di fantalinguistica. Materia in cui invece Frédéric Werst può ben dirsi campione mondiale. Francese, insegnante in un liceo di Parigi, 44 anni, innamorato della «letteratura del frammento», quindi di Pascal e di Barthes, ammette d'esser stato influenzato, nel suo lavoro, dalla «polifonia» di Dostoevskij filtrata da Bachtin. È stato Werst a regalarci la citazione di Mallarmé prima riportata. Era in un'intervista rilasciata nel febbraio 2011 in cui stava parlando del suo primo libro, Ward. Ier et IIe siècle , pubblicato da Seuil, al quale sarebbe seguito, quest'anno, il secondo, Ward IIIe siècle . Ora esce anche da noi Il mondo dei Wardi. I e II secolo. Un'antologia (Edizioni Clichy, pagg. 560, euro 19, traduzione di Tania Spagnoli e Federico Zaniboni, da oggi in libreria), testo che sta alla fantalinguistica come la stele di Rosetta sta allo studio del demotico e del geroglifico. Un'illuminazione, una grande avventura culturale, un coup de théâtre . Un «gioco» anche, dice nell'introduzione.

I Wardi, ovviamente, non esistono, come non esiste il wardesano, la loro lingua. Se li è inventati Werst - detto per inciso, pseudonimo che in wardesano significa «cosa, oggetto»... Il loro tempo è diviso fra prima e dopo Zaragabal, il re che unificò il regno. Sono originari del Boran, il «continente del Nord», ma si sono stabiliti nel Nentan, il «continente del Sud». Di loro Werst ci dice tutto pur restando fedele al segreto patto dell'inesistenza che ha stipulato con la propria fantasia e il proprio sapere di linguista e filologo. Piani di lettura, per quest'opera colossale che promette di essere aperta a qualsiasi sviluppo («forse in futuro ci potrebbe essere un contatto fra noi e i wardi», ha dichiarato il geniale Frédéric) ce ne sono a sufficienza per costruire un grattacielo, o una Torre di Babele molto più labirintica di quella sottintesa da Tolkien («autore che non l'ho mai letto»). Ma il nocciolo della questione è, come si ricava da un passo di Heidegger posto a esergo del Mondo dei Wardi , la nostalgia dell'essere: «in realtà - scrive il filosofo tedesco -, la distruzione della nostra relazione con l'essere come tale è la vera ragione dell'insieme dei nostri cattivi rapporti con la lingua». Quando muore una lingua, ci dice Werst, non muore soltanto il presente di chi la usa, ma anche il suo passato e il suo futuro. La morte di una lingua è la sconfitta dell'uomo.

La strenua lotta che ha anche, se vogliamo, una valenza politica, condotta dall'autore per far resuscitare ciò che non è mai stato ha la portata simbolica di un gesto d'amore nei confronti di tutte le culture, incluse quelle microscopiche («in Oceania sono in tre a parlare l'araki, e quando quei tre saranno morti spariranno miti e rappresentazioni del mondo»). Dopo l'inquadramento storico della civiltà wardesana attraverso guerre, esodi, scontri di potere fra la monarchia del sangue e quella elettiva, Werst dipana un'antologia in wardesano, con traduzione a fronte, di frammenti di opere poetiche, storiche, satiriche, filosofiche. È un percorso lungo il quale avvertiamo la presenza di topos a noi familiari: c'è una sorta di vello d'oro, c'è un profeta inascoltato che è quasi un figlio di dio, c'è una battaglia fondante che somiglia allo scontro fra Atene e Sparta, c'è una catena di narrazioni in stile Mille e una notte ... L'edificazione di queste immaginarie rovine d'una civiltà mai nata è costata a Werst quattro anni di impegno assoluto che lo hanno portato addirittura, dice lui, a scrivere prima in wardesano per poi tradurre in francese...

E, in fondo al volume, ecco una Grammatica e un Lessico del wardesano. Aveva ragione Mallarmé: tutto esiste per finire in un libro. Ma ha ragione anche Werst: tutto ciò che finisce in un libro esiste.

Ed esiste per sempre.

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