Francesco Palmieri è un giornalista specializzato in politica estera (con trascorsi nella palestra della cronaca nera), uno scrittore raffinato che ha raccontato in vari lo spirito profondo della sua Napoli, ma è anche un maestro di Kung Fu. Il suo ultimo libro è un omaggio a un’icona delle arti marziali, ma anche un viaggio nostalgico nella memoria di un giovane appassionato del piccolo drago» che prova a ripercorrerne le gesta fino alla scoperta della Hong Kong di Bruce Lee.
Palmieri, lei ha appena pubblicato «Il piccolo drago. La vita di Bruce Lee» per Mondadori. Come nasce questo libro?
«Volevo scrivere il romanzo della vita di Bruce Lee in modo che fosse accessibile anche a chi non è un praticante di arti marziali, raccontare la storia di un personaggio che ha fatto da ponte tra Oriente e Occidente forse più di quanto non abbiano fatto Confucio e Mao, anche perché lo ha fatto in maniera pop, attraverso il cinema».
Lei scrive che non ha mai perso la sua essenza cinese, ma chi è stato Bruce Lee per i cinesi?
«Innanzitutto Bruce Lee ha potuto compiere il suo percorso grazie al fatto di essere di Hong Kong, anche se casualmente nacque a San Francisco. In Cina il suo mito arrivò soltanto negli anni ’90 grazie a una maxi serie tv. In precedenza era stato sostanzialmente ignorato. Poi sono cambiati i tempi. Bruce Lee è entrato soprattutto in una mitologia occidentale, basti pensare che il primo monumento a Bruce Lee è stato eretto a Mostar, in Bosnia. Lee fu un simbolo in grado di riunire nazionalità ed etnie diverse, come neri e portoricani, fu un eroe degli oppressi. All’epoca ha fatto più lui per i rapporti tra Est e Ovest di quanto non abbia fatto la famosa diplomazia del ping pong. E ha fatto molto anche per la percezione esterna dei cinesi. Prima di lui erano visti in maniera macchiettistica, c’era un certo razzismo. Con lui è stata sdoganata la loro fisicità. Tutti sognavamo di essere come lui, di avere il suo corpo, un corpo divenuto universale. E ci sono stati tanti emuli, anche se non ci potrà mai essere uno come lui, così come non ci potrà mai essere un altro Pelè o Maradona».
Ma chi era Bruce Lee?
«Un ragazzo fragile, nato con una gamba più corta, miope, con la tendenza ad assumere droghe leggere che si è trasformato in una sorta di eroe. Un maestro di kung fu che ha sovrapposto i film alla vita, ha rotto con la tradizione creando un suo 'metodo non metodo'. Ma anche un grande lettore – nella sua libreria c’erano più di 2500 volumi – appassionato di filosofia e di autori come Alan Watts, Herman Hesse, Konrad Lorenz».
Il suo amore per Bruce Lee si lega anche a quello per Hong Kong?
«Ho insegnato kung fu per molti anni e continuo a praticarlo. Per più di 25 anni sono andato a Hong Kong dove ho la mia “famiglia” di kung fu. E frequentando i luoghi di Bruce Lee ho potuto comprenderlo meglio oltre ad appassionarmi alla cultura cinese. Ricordo il mio arrivo nel vecchio aeroporto di Kai Tak, la pista strettissima, sembrava di atterrare sull’acqua. I piloti dovevano fare un corso speciale per poterlo affrontare. Lo spirito coloniale, con le monete con la regina e la parola 'Royal' dappertutto. Poi nel ’97 il passaggio alla Cina con una indipendenza formale, ma un atteggiamento sempre più invadente, Basti pensare ai recenti arresti di esponenti democratici».
Lo scontro dentro il Colosseo tra Bruce Lee e Chuck Norris è una delle scene più conosciute del cinema d’azione mondiale.
«E’ diventata un classico e anche uno spot internazionale per il Colosseo. La particolarità è che non venne girata al Colosseo perché non gli fu dato il permesso, ma le ambientazioni furono ricostruite a Hong Kong. Bruce Lee scelse Roma perché voleva evocare e rappresentare i gladiatori. Fu anche la prima volta che Chuck Norris apparve sullo schermo, nel ruolo del villain, il cattivo, anche se in una atmosfera di reciproco rispetto tra i due contendenti, tanto che alla fine Lee gli ripiega la giacca del karategi. Furono 45 ore di lavorazione meticolosa. Io sono anche riuscito a parlare con Marco Pane, oggi un simpatico signore sui cinquanta, che fece una piccola parte in quel film quando era bambino e ancora ricorda quel giorno. Bruce Lee girò anche per le librerie di Roma e ci sono due volumetti in italiano del maestro di karate Augusto Basile nella sua biblioteca».
I film sulle arti marziali, soprattutto quelli degli anni ’70, oscillano tra la grazia e il paradosso. Bruce Lee rappresenta la vetta più alta di quel genere?
«Prima di lui quei film venivano girati in fretta per un pubblico di bocca buona, pensati soprattutto per il Sud Est asiatico. Lui li ha nobilitati con il suo carisma e magnetismo, convincendo anche i produttori a investire più soldi e mezzi».
C’è una frase molto bella nel libro sulla trasmissione del sapere: l’arte marziale ha bisogno di passare da un corpo all’altro per continuare a vivere e nessun corpo eredita tutto.
«C’è un proverbio cinese che dice che chi ti fa da maestro un giorno ti sarà padre per tutta la vita. Oggi su youtube c’è tutto, c’è un eccesso di offerta di tecniche e combattimenti. Ma quando impari dal tuo maestro, tra foto d’epoca, simboli, odori, compagni che diventano tuoi fratelli è un’altra cosa. Impari l’essenza del kung fu che significa 'abilità acquisita con fatica' e la metabolizzi sul piano fisico, spirituale, personale e umano. E poi quando sei davanti al tuo maestro e sei piegato dalla fatica non puoi spingere il tasto pausa come su youtube».
L’altro aspetto che mi ha colpito è il suo soffermarsi, a volte con ironia, «sull’altrove mitico che nell’altrove non esiste», ovvero su quella sorta di mitologia fantastica applicata al mondo e ai luoghi delle arti marziali.
«Quando ti figuri un luogo e un contesto senza averlo mai vissuto crei quel luogo nella tua testa, lo mitizzi, lo fai diventare fasullo,
disneyano. Un esempio: a casa il mio maestro aveva ancora la sputacchiera. Di certo nella raffigurazione mentale del mio 'altrove' non avrei messo la sputacchiera, avrei messo qualcosa di più nobile se non ci fossi mai stato...».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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