Birra, bosoni e Boccaccio Ecco il festival di Strapaese (altro che salotti letterari)

Birra, bosoni e Boccaccio Ecco il festival di Strapaese (altro che salotti letterari)

Più di dieci anni fa, prima del crollo delle Torri Gemelle, mi trovavo a un convegno sulle «nuove scritture» a Milano, alla San Paolo Editore, vicino alla redazione di Famiglia Cristiana. Con me c'erano tutti gli scrittori che al tempo avevano pubblicato qualcosa o erano in procinto di farlo. A un certo punto Fulvio Panzeri mi chiamò sul palco per farmi esprimere un'idea personale sulla scrittura e la giornalista Loredana Lipperini mi chiese quale fosse la differenza – segnatevi il corsivo - tra i salotti letterari romani e quelli milanesi. Io rimasi annichilito per qualche lunghissimo secondo e candidamente risposi che non ne sapevo nulla di salotti né tantomeno conoscevo le differenze. Gelo in sala. Tornai al mio posto.
In quel convegno Giuseppe Genna e Michele Monina, al tempo scrittori giovani di belle speranze, arrivarono a minacciare Guido Conti su una strana storia da Strapaese e Stracittà e si giurarono vendetta a singolar tenzone; altri scrittori diedero la loro versione dei fatti eseguendo compitini all'epoca convincenti. Poi iniziò un lento e inesorabile declino e l'attenzione dei media sugli scrittori, sui romanzi, sulle narrazioni, decadde, fino a raggiungere numeri irrisori di fatturato, di fascinazione e, per varie ragioni, cambiò un mondo.
Per anni tutti proseguirono come se nulla fosse, come se nessuno si fosse accorto che gli scrittori non facevano più notizia, che le opinioni su questo e quello non erano più espresse da loro e dalla loro idea di mondo: gli opinion leader della cultura e del giornalismo non erano più interessati all'eroica figura del narratore, dell'artista scrittore e il Principe diventò un rospo. Fino a quindici anni fa bastava scrivere un raccontino splatter per essere recensiti da Furio Colombo, fino a dieci anni fa un'antologia di racconti ingenui poteva creare scompiglio tra la Repubblica delle Lettere...
Scrivo tutto ciò dalla Val di Comino dove dal 25 agosto al 2 settembre sta avvenendo un piccolo miracolo: il Festival delle Storie, ideato dal giornalista del Giornale Vittorio Macioce, un appuntamento itinerante tra Alvito, Atina, Picinisco, San Donato Val Comino, Casalvieri, Vicalvi, in provincia di Frosinone. Qui i rospi sembrano tornare Principi e i salotti sembrano un retaggio punico. Qui, dopo decenni di delusioni culturali, di isolamento forzato, in un territorio collinare pieno di ulivi e visciole, più di cento tra scrittori, scienziati, artisti, registi, giornalisti, musicisti, poeti, stanno raccontando «storie» a pubblico stupito e attento, e stanno rivitalizzando pure se stessi dopo anni di «salotti», compromessi, delusioni, fiere del libro annichilenti, festival algidi, baroni e lacché.
Qui no, qui in Val di Comino è diverso: le storie diventano idee. Qui fioriscono sorrisi, progettualità e confabulazioni creative. Merito anche del luogo, in cui tutto sembra essere sospeso in un tempo indefinibile tra Etruschi, Romani, Rinascimento e la Silicon Valley. Il domani, cioè ieri e oggi.
Antonio Zichichi è accolto a Picinisco come una rock star e parla per due ore davanti a cinquecento persone che ascoltano discorsi su bosoni, Galileo Galilei, Dio e storia della scienza. Alla fine, un'ora di autografi sui libri sancisce la definitiva potenza di un formula semplice: l'incontro antidivistico tra piazze esteticamente accoglienti e la voglia di esserci.
Per stradine assolate girano personaggi televisivi e perfetti sconosciuti. Tomaso Walliser per due anni è stato in America a intervistare gli uomini che inventarono i primi video giochi degli anni '60 diventando i proprietari di Atari o gli ideatori di Space Invaders. Oppure capita di imbattersi in una vecchietta che vedendo un volto noto di Zelig afferma di essere lì in attesa da tempo: lo chiama in casa, gli dice che l'antenna è guasta, lui controlla, ripara e se ne va come se nulla fosse. La normalità dell'eccezione, così come può esserlo un festival fatto per passione ostinata e con l'idea malsana che la cultura può portare sviluppo.
Prima si diceva di Strapaese e Stracittà, si diceva di salotti letterari tra Capitale e mondo meneghino ma qui, al Festival delle Storie, tutto è rimesso in discussione, le certezze abbattute in nove giorni di surrealismo, Patafisica, vivacità e buonumore. Qualcuno arriva perplesso, poi dopo qualche ora ammette: «... e io che non ci volevo venire, ma poi...».
Il festival di questa piccola valle dimostra che solo chi ha un villaggio nella memoria può essere un cosmopolita. Chi non ce l'ha è un apolide. Qui si sente, ed è evidente, una fierezza antica. Qui vincono le passioni, vincono i luoghi. Ma vincono anche gli appuntamenti culturali e tutto ciò che ruota attorno: si è visto Giorgio Conte giocare a biliardino con gli avventori di un bar, si è visto il sostituto procuratore antimafia Antonio Patrono che dismette i panni ufficiali per parlare due ore di libri e impegno civile, si sono viste piazze intere ad ascoltare la lettura delle novelle del Boccaccio... Perché qui il motto è: «Non chiederti chi racconta la storia, l'importante è che sappia raccontarla». Sarà un caso, ma sembra sia possibile raccontarla bene, con arte, con originalità, proprio perché ci si sente come a casa propria.

Una grande storia dalla trama avvincente la cui geniale alchimia funziona come possono funzionare le cose fatte col cuore e con l'idea rivoluzionaria di mettere in relazione artisti tra le bellezze storiche e paesaggistiche, farli rilassare con persone disposte ad accoglierli e vedere cosa succede. Il risultato è un clima adatto a scatenare la fantasia.
Ecco allora che finalmente ho capito qual è la differenza. Si chiama Festival delle Storie della Val di Comino.
*scrittore

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