"Brutale, sottile, vigliacca. Ecco la mia vita violenta"

Nel romanzo autobiografico "Il caso Eddy Bellegueule" di Édouard Louis, un ragazzo omosessuale si misura con la cattiveria di un borgo francese

"Brutale, sottile, vigliacca. Ecco la mia vita violenta"

Un romanzo autobiografico che non fa prigionieri. Una violenza sommersa, ma naturale come il respiro. Infanzia e adolescenza torturate da una persecuzione sistematica cominciata dalla più tenera età, quando i genitori si accorgono con terrore che il loro primogenito si muove e parla come una femmina, persecuzione che diventa scientifica nei primi giorni di scuola, con il marchio di «frocio». La gioventù è in corso: l'autore, Édouard Louis, vero nome Eddy Bellegueule, lo stesso che ha dato al suo romanzo - Il caso Eddy Bellegueule (Bompiani, pagg. 176, euro 16) - ha soltanto 22 anni, anche se dopo l'Ecole Normale Supérieure a Parigi, ha scritto un saggio su Pierre Bourdieu e cura una collana di scienze umane. La notizia? La violenza, di cui narra Edouard/Eddy - fatta di sputi leccati dal pavimento e teste sbattute contro il muro nei corridoi della scuola - non è l'eco agghiacciante di un paese lontano: è la Francia di oggi, sono le famiglie operaie di Hallencourt, il borgo della Piccardia da cui Eddy è fuggito per studiare. Il romanzo è l'avvenimento letterario francese del 2014 e promette di diventare anche il caso europeo dell'anno: 200mila copie vendute e le campagne di fact-checking del Nouvel Observateur e di altri media per «controllare», attraverso parenti e amici del ragazzo, potenziali invenzioni. Forse perché qui siamo lontano dal politicamente corretto: Eddy usa le parole come armi, il risultato è potente.

Che cos'è la violenza?
«Il progetto fondante del mio libro. Volevo fare della violenza uno spazio letterario, come Marguerite Duras ha fatto con l'amore. Solo le parole possono dare un nome a quello che subiamo e definirlo: veniamo attraversati dalla violenza e non sappiamo che è violenza. È questa la trappola. Se da ragazzo sei omossessuale e ti dicono “frocio”, subisci una violenza e non lo sai».

Possibile che questo accada ancora, oggi, in Europa?
«Quando il fratello, le sorelle, le cugine di Eddy non vanno a scuola, dicono “Non fa per me, non mi interessa”. Uno spirito di esclusione innato, che non si cancella. Quando il cugino va in prigione e poi ci muore, non capisce che accade a causa di una vita di violenze».

Quindi il libro ha uno scopo filosofico, morale?
«Sono stato segnato dai filosofi: Foucault, Sartre con Saint Genet e così via. Ma qui parliamo di una cosa diversa: parliamo di letteratura. Il compito della letteratura è fornire una visione del mondo che ci strappi dalla realtà per offrircene una versione rinnovata e più vera del vero. La mia è una narrazione autobiografica, non pleonastica».

E infatti nessuno dei suoi parenti ci si riconosce. Anzi, negano.
«Nemmeno Sartre si riconosceva nei mémoirs di Simone de Beauvoir»

Qual è stato il momento più duro?
«Ce ne sono stati molti. I ricordi emergevano mentre scrivevo, li capivo mentre scrivevo. Non poter mangiare, vivere senza riscaldamento, lavarsi nell'acqua della vasca già sporca: non percepivo tutto questo come una violenza mentre lo vivevo. Il momento peggiore è stato quando ho capito che tutto quel che scrivevo era intimo, che per questo era indecente e che per questo andava scritto. Anzi, che era l'unica cosa che valeva la pena di essere raccontata. Non c'è privato: la letteratura può dire il dicibile e l'indicibile».

Così ha deciso che Eddy Bellegueule diventava pubblico.
«L'ho deciso dopo aver letto Retour à Reims, in cui Didier Eribon racconta la traiettoria di un bambino di una classe popolare che fugge dal suo ambiente e si reinventa. Volevo scrivere anch'io un appello alla parola, un romanzo che, dopo averlo letto, faccia nascere l'insopprimibile desiderio di parlare di sé».

Alcune scene del suo libro sono crude oltre ogni limite. Modelli?
«Faulkner e la Jelinek. Ma ho avuto anche contromodelli. Nel Miracolo della rosa, Genet racconta che gli sputano addosso e che quello sputo è «Come una rosa». Ho letto e riletto quella scena, sublime, ma alla fine mi sono detto: “Uno sputo è uno sputo, non è una rosa”. La scena iniziale del mio romanzo è ispirata a quella di Genet, ma come insurrezione contro la metaforizzazione lirica della violenza e l'estetica della povertà».

Il suo è un successo con luci e ombre.
«La campagna del Nouvel Obs e di Canal Plus è stata violenta, appunto. La mia è letteratura, non può essere sottoposta a un'inchiesta giornalistica: è ovvio che se si chiede a mia madre se era violenta con me, lei risponda “Niente affatto”. Inoltre, ciò che riguarda la famiglia è ancora considerato un nucleo sacro che non deve essere sporcato per nessun motivo. Per questo il mio romanzo risulta così trasgressivo».

Ha sfruttato l'onda dell'autofiction?
«Non mi ci riconosco: autofiction significa mescolare la frontiera tra realtà e finzione, imbrogliare le carte. Io invece voglio riconciliare verità e letteratura».

In Eddy Bellegueule la potenza è nella verità. Non teme che nel prossimo romanzo possa mancare questa forza?
«No: anche il prossimo sarà un romanzo autobiografico. L'autobiografia ha una forza politica».

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