Cultura e Spettacoli

«Che grande amicizia» Le ultime lettere tra Papini e Prezzolini

C ol terzo volume (pp. LIX-768, euro 88) si completa il Carteggio tra Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, curato da Sandro Gentili e Gloria Manghetti per le Edizioni di Storia e Letteratura in collaborazione con l'Archivio Prezzolini della Biblioteca Cantonale di Lugano, la città in cui il «primo amico» di Papini scelse di trascorrere l'ultimo periodo della sua centenaria esistenza (1882-1982).
L'arco di tempo coperto da queste poco meno che seicento lettere (col recupero di alcune di più antica data) va dal 1915 al '56, quando muore, settantacinquenne, Papini. La distribuzione è diseguale nei numeri (appena una lettera nel 1922; solo tre nel '41; vuoto il triennio 1942-44) ma non registra effettive discontinuità né tantomeno ribaltamenti caratteriali nei due interlocutori. Si capisce che le vicende italiane, anzi europee e mondiali (il carteggio attraversa due terribili guerre), suscitano in più di un caso reazioni e atteggiamenti che potrebbero fare di Papini e Prezzolini due nemici inconciliabili; senonché ad entrambi soccorre - fino all'ultimo - la non spenta energia di una radice comune, la stessa che agli albori del secolo aveva armato il loro battagliero sodalizio nel fondare e condurre imprese come Il Leonardo e La Voce.
Ma è quella, di fatto, l'unica stagione a cui rimanga affidata la memoria di due personaggi che pure, nei progetti e nei libri che immettevano sul mercato, non conobbero mai una fase di inerzia, di vera e propria crisi. Il motivo della loro emarginazione dai dibattiti dal secondo Novecento in poi è notoriamente - e sostanzialmente - politico, si lega alla posizione assunta da Papini durante il fascismo, che fu di sostegno al regime o, magari nel dubbio, disponibile e possibilistica. Quanto a Prezzolini, il suo conservatorismo nutrito da una esibita e cinica diffidenza nei riguardi dell'umanità (si vantava di aver licenziato l'una dopo l'altra, nel 1924 e '25, le biografie del Duce e dell'antifascista Amendola) non era davvero il miglior viatico per garantirgli una platea favorevole nell'Italia post 1945, se non presso alcune intelligenze isolate: pensiamo a Montanelli, che andò a trovarlo nel '49 a New York.
New York è, con Firenze, uno dei due poli, non solamente geografici, del carteggio. Gli eccellenti curatori dànno il dovuto rilievo agli anni della Grande Guerra (con Prezzolini al fronte, poi «imboscato» malvolentieri in un ufficio, poi di nuovo combattente; Papini invece riformato e, agli occhi dell'amico, pericolosamente in contatto coi «disfattisti» di un giornale romano) e altrettanto ne concedono ai reiterati dissensi in séguito ai quali Papini primeggia (autore e autorità) a Firenze nelle edizioni Vallecchi, mentre Prezzolini convoglia altri bei nomi e titoli a Roma per il catalogo della Società anonima editrice La Voce. Una divaricazione più tangibile si produce però alle soglie del 1930: Prezzolini, dapprima visiting professor alla Columbia University per un anno, accetta di fermarsi in pianta stabile a New York, anche dirigendovi fino al '40 la Casa Italiana. Da quel momento gli è spontaneo il paragonare la vita in Europa (aveva lavorato alcuni anni a Parigi per conto della Società delle Nazioni) e in Italia (neppure Mussolini ha guarito il nostro popolo dai suoi vizî: arrivismo, mediocre particolarismo…) alla vita come si svolge in America: non certo impeccabilmente ma almeno in un quadro di reciproco rispetto fra gli individui e tra individui e istituzioni. Più tardi, Prezzolini chiederà e otterrà la cittadinanza statunitense. Si allarga fisicamente il fossato che lo divide dalla sua terra di origine. Dove, nel primo dopoguerra, s'avvia quella conversione di Papini al cristianesimo e al cattolicesimo che nel 1921 esplode con la Storia di Cristo, un successo editoriale fonte di mille polemiche. Prezzolini si mostra scettico sin da principio sulla credibilità di quel passo, lui che nel '31 afferma di sentirsi, invece, «sempre meno cristiano» e capisce di non poter discutere della materia su un piano logico, tale è la distanza fra un ateo e un credente.
Lutti familiari scandiscono il carteggio; un senso irrimediabile di declino, acuito dall'aggravarsi della situazione mondiale, fa dire a Prezzolini: «Oramai siam uomini della sera»; e i richiami all'eroica gioventù inducono, più che al rimpianto, al consuntivo: «Che cosa abbiamo fatto? Valeva la pena? Perché tanto arrabattarsi? Tu puoi considerar le cose in altro modo, ma io proprio mi domando se non avrei fatto meglio a fabbricar cioccolata per i ragazzi». Siamo nel 1941. Il divario tra l'uomo di fede e il miscredente resta incolmabile. Ma dopo il '45, mentre Papini va perdendo la vista - e via via anche l'uso degli arti e della parola -, nelle lettere che Prezzolini gli invia dall'inquinatissima ma affascinante Manhattan, oltre al racconto di giornate frugali, dedite alle faccende domestiche e alla stesura di innumerevoli articoli scritti a mero scopo di guadagno, spicca un tema profondo e immortale: l'amicizia. È il motivo più autentico. Sul finire del '55, nel corso di un breve giro di conferenze in Italia, Prezzolini visiterà per tre volte Papini, ridotto quasi allo stremo. La nipote Anna, che quotidianamente assiste l'ammalato, riferisce di quegli incontri minuto per minuto. Ne leggiamo la cronaca in appendice all'odierno volume.

Toccante l'immagine di Prezzolini che bacia l'amico e lo saluta ripetendo «Addio Papini»; poi nell'ingresso, mentre si infila le calosce, «piange» e commenta: «Che grande amicizia è stata la nostra!».

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