"Checkpoint Trieste", il dramma degli atleti fuggiti dalla furia di Tito

Da Mario Andretti a Abdon Pamich, un documentario per il Giorno del ricordo

"Checkpoint Trieste", il dramma degli atleti fuggiti dalla furia di Tito

Il giorno del ricordo ha smarrito il ricordo. Il dieci di febbraio del Quarantasette è un'immagine opaca, lontana, anche fastidiosa per una fetta di italiani, comunisti e affini, che non ha voglia di ricordare. Perché non conosce nemmeno la vergogna.

Sky Sport ha messo assieme le immagini e le parole di quell'epoca cattiva che ha lasciato il segno sui nostri profughi, in fuga dalla loro terra rubata dal regime di Tito. Il lavoro di Matteo Marani, che sullo studio della storia ha raggiunto la laurea e di quel tempo maligno ha scritto libri e raccolto testimonianze, si riassume sotto il titolo di Checkpoint Trieste, un documentario all'interno del quale trova spazio forte e profondo il 10 febbraio, il ricordo, in onda domani su SkySport SerieA (ore 23,15). Qui l'esodo giuliano-dalmata trova voci e immagini degli uomini di sport che da quei luoghi furono costretti, con le loro famiglie, a scappare per non finire nella trappola della falsa libertà socialcomunista. Dunque Fiume (qualche ignorantello tra i miei colleghi, in occasione di una partita di coppa europea tra una squadra italiana e il Rijeka, scrisse «oggi la sfida contro il Rjeka di Fiume»), Montona, San Pancrazio, San Bortolo, Pola, svuotate dai nostri connazionali, senza un presente, in assenza di futuro.

Sul muro di rustiche pietre di una dimora a Montona c'è una lapide a ricordo «in questa casa è nato il 28 02 1940 Mario Andretti campione del mondo di Formula 1 1978. Oldtimer Klub Pula Ruote del passato Pordenone». Andretti aveva sette anni e, nell'intervista di Sky Sport, ha ricordo vivo e grigio di quei giorni. «Arrivò il momento in cui i miei genitori dovevano decidere, rimaniamo cittadini italiani o restiamo nella zona comunista e poi pensare all'arrivo in Italia come profughi del nostro Paese; vedevo l'emozione dei nonni, dei genitori, dello zio, era davvero triste avendo vissuto lì tutta la vita, coltivato la terra e costretti ad abbandonare tutto senza sapere quello che ci attendeva». Gli Andretti raccolsero panni e affetti, viaggiarono verso la Toscana, si trasferirono a Lucca, poi l'America, per Mario la Formula 1, dodici gran premi vinti, la Ferrari, il mondiale con la Lotus Ford, mai, però, l'abbandono dell'affetto per quel pezzo di infanzia strappata via.

Come lui altri futuri protagonisti del nostro sport, Ottavio Missoni, artista della moda, sesto ai Giochi di Londra del 1948 nei 400 ostacoli, i fratelli Vatta, Antonio e Sergio, maestri di football, Orlando Sirola, vincitore nel doppio con Nicola Pietrangeli agli Internazionali di Francia del '59, Agostino Straulino leggendario velista, oro alle Olimpiadi di Helsinki, quattro volte campione del mondo, Nino Benvenuti, campione del mondo dei pesi medi, da Isola d'Istria, due volte alla settimana superava in bicicletta il confine per andare ad allenarsi a Trieste, e Abdon Pamich che della nostra marcia è stato il monumento, oro a Tokyo e quaranta titoli tra italiani e europei.

Pamich viene da Fiume, ricorda che lo sport era una questione culturale non semplicemente ludica. Lui è la memoria potente di quei giorni, vive a Roma nella zona dell'Eur, nel quartiere giuliano-dalmata destinato gli esuli. Altri trovarono rifugio nei centonove campi di raccolta sparsi su tutto il territorio italiano. La motonave «Toscana» trasportava da Pola a Venezia o al porto di Ancona migliaia di profughi disperati, non c'erano televisioni a inquadrare quei volti di cera o gommoni di politicanti alla ricerca dell'applauso elettorale. Abdon Pamich non avrebbe voglia di riaprire il diario di quelle espressioni cattive, di quelle voci acide, di quegli sputi miserabili, il repertorio che i comunisti e i loro fiancheggiatori riservarono agli esuli, accusati di essere fascisti e comunque conniventi con il regime, colpevoli di non avere accettato il paradiso socialista. Era quella l'accoglienza di cui parlano e scrivono oggi gli eredi ideologici di quei giorni, gli stessi che a Bologna portarono allo sciopero dei ferrovieri il diciotto febbraio del Quarantasette. Era mezzogiorno quando il merci che veniva da Trieste destinato al sud, carico di uomini, donne e bambini, pigiati tra la paglia nei vari vagoni, si sarebbe fermato. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa avevano preparato pasti e coperte. Nella memoria di Pamich e degli altri esuli restano gli strilli che uscivano metallici dai microfoni con i quali i sindacalisti della Cgil e gli iscritti del Partito Comunista Italiano impedirono l'assistenza, «Se i profughi si fermano per mangiare lo sciopero bloccherà la stazione», e furono sassi contro il convoglio e sputi e lancio di pomodori e uova e ancora il latte destinato agli infanti venne versato sulle rotaie, lo spregio massimo, il più vigliacco.

La voce di Pamich, il suo volto di rughe che ha affrontato, superato e vinto la fatica della marcia verso la gloria, tornano a esprimere la malinconica rabbia e la rassegnazione a un tempo nemmeno dimenticato ma evitato da coloro che oggi sventolano la bandiera dell'accoglienza: «Noi fummo trattati molto peggio di quelli che oggi dicono di essere trattati male.

Non ci fu accoglienza ma diffidenza, dicevano che eravamo fascisti che scappavamo dal paradiso comunista cui loro aspiravano». Nello sport avrebbero riscattato la violenza e il disprezzo. La storia non continua. La storia si è fermata.

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