Adam Johnson: "In Corea si riprogramma la psiche delle persone"

L'autore americano del romanzo verità "Il Signore degli orfani": "Ho visto gli orrori della dittatura. Raccontarli è una missione"

Adam Johnson: "In Corea si riprogramma la psiche delle persone"

Raggiungerlo sembra facilissimo: Adam Johnson ha appena saputo di aver vinto il Pulitzer per la categoria «Fiction», ma sta andando in biblioteca, come fa tutti i giorni. E siccome ci va a piedi, ha un po' di tempo per commentare il premio al telefono: «Solo qualche minuto... Però ci tengo a dire che la più grande speranza di questo premio è quella di poter dare voce a un Paese trascurato dal mondo o frainteso. Molti pensano che i coreani siano dei matti, dei malvagi. Invece sono persone che soffrono. Spero che il mio libro aiuti i lettori a pensare a loro seriamente».

Il libro in questione, che il comitato del Pulitzer ha giudicato «un romanzo squisitamente costruito, che trasporta il lettore in un viaggio avventuroso nelle profondità della Corea del Nord totalitaria e nei recessi più intimi dell'animo umano», è Il Signore degli orfani (uscito da noi da Marsilio), il cui intreccio è frutto di fiction, ma ispirato a vere storie di nordcoreani. Il protagonista è Jun Do, all'apparenza manichino della dittatura di Pyongyang ai tempi di Kim Jong-il, ex soldato incaricato di rapire stranieri e intercettare trasmissioni radio per conto del regime, in realtà anche umanissima vittima alla ricerca della miglior strategia di sopravvivenza, torturato dal senso di colpa per le atrocità commesse. Fino alla redenzione sentimentale a opera di Sun Moon, l'attrice più famosa del Paese, «ammirata» anche dal dittatore.

Ma Adam Johnson, 45 anni, originario del Sud Dakota, docente di scrittura creativa a Stanford, collaboratore di Harper's, Esquire, Paris Review, non è un qualunque scrittore che ha infarcito un plot di fatti estratti da articoli e saggi. Ed è per questo che la telefonata di commento al Pulitzer si trasforma nel racconto della sua “missione”: «La gente mi prendeva per pazzo. Ho studiato la Corea del Nord per sette anni, leggendo qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, persino i volumi di agricoltura e tutto il materiale di propaganda. Poi ho trovato le testimonianze dei fuoriusciti, le poche disponibili. Una volta che ho cominciato a leggere, qualcosa è cambiato in me. Avevano un peso diverso. Erano persone vere a parlare. Ed era fondamentale che gli altri sentissero. Mi è sembrato di avere una missione».

È stato in quel momento che è nato l'amore di Johnson per la gente della Corea del Nord. E ha deciso di essere la loro voce: il suo progetto è stato fin dall'inizio quello di scrivere un romanzo dal punto di vista di un nordcoreano. Per farlo però, doveva almeno provare a vederli da vicino, i nordocoreani. Impresa all'apparenza impossibile, che a Johnson è riuscita infilandosi in un viaggio tra le fauci del lupo addirittura sponsorizzato da Kim Jong-il, sebbene controllato a vista. «Su internet il regime offre soggiorni ufficiali a chi voglia sperimentare la felicità del Paese. Come docente a contratto non mi hanno preso, ma sono riuscito a entrare grazie a un amico nordcoreano, orfano della Guerra di Corea, che faceva parte di una ONG in missione umanitaria per piantare meli. Ha creduto nel mio libro e mi ha preso come assistente. Una volta là, eravamo turisti vip, confinati sull'isola di Yanggak in un hotel gestito da cinesi. Nessun cittadino coreano può venire sull'isola. Andavamo in giro con le guardie del corpo della KFA: una aveva una vecchia videocamera per riprendere tutto quello che dicevamo e facevamo, diceva che era per un dvd turistico».

Il viaggio di Johnson ha qualcosa di mitico e persino ora, mentre ne racconta qualche dettaglio per l'ennesima volta, sembra commuoversi. Ripete che lo shock di trovarsi di fronte a persone che non solo non sanno niente del mondo esterno, ma che forse non sapranno mai di non sapere, è inaccettabile. Lo ha lasciato di stucco il fatto che non leggano libri da sessant'anni, anzi, che non esistano librerie: «C'è una sola storia, in Nord Corea: quella che racconta il grande leader. Ma non parla né dei desideri né dei bisogni dei singoli individui. Non possiamo però sapere se qualcuno di loro non stia meditando di scrivere un libro. O non lo stia già scrivendo, underground. A volte, la libertà arriva e si passa dalla resilienza alla rigenerazione. Non possiamo sapere». Questo pare lo consoli.

Eppure questi cittadini appartengono a un regime che tiene con il fiato sospeso gli Stati Uniti, a causa delle minacce nucleari. Ritiene che abbiano qualche fondamento: «La Corea del Nord è una macchina che genera mistero. Loro aprono e chiudono file, ma noi non ne sappiamo nulla. Non sappiamo come muoiono i leader, come vivono, come sono le loro mogli. Perciò non possiamo sapere nulla nemmeno della verità di queste minacce».

«Non possiamo sapere» pare la parola d'ordine, per Johnson. Sembra impossibile da accettare. Che non abbia almeno provato a prendere contatti con un cittadino, a squarciare il velo di una realtà parallela: «È illegale parlare con loro, ma se ci avessi provato, mentre ero là, non sarei solo finito nei guai, li avrei anche messi in pericolo.

Riesce a immaginare che cosa voglia dire per uno scrittore camminare a Pyongyang, in mezzo a migliaia di persone? Avrei voluto parlare con tutti, chiedere: chi sei? Che cosa pensi? Sei felice? Ma non potevo, semplicemente non potevo». Una specie di incubo. «Una specie di crudele riprogrammazione psicologica su scala nazionale».

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