Cultura e Spettacoli

Così rivivono gli eroi del Grappa

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto di La guerra non è finita (Passaggio al bosco)

Così rivivono gli eroi del Grappa

Oltre il lago si apriva una conca non troppo ricurva di colli, il cui picco principale era coperto dapprima, alla base, da macchie disperse, per poi coronare in folta capigliatura di bosco. L’ampia querceta correva per tutta la cima, declinava poi da entrambi i lati e ricopriva tutta la vallata retrostante, in rigoglio di verde in estate e bronzo rugginoso d’autunno.

Non c’erano che pochi patriarchi ultracentenari, per il resto si trattava di roverelle di sessanta, ottant’anni, o più giovani ed esili lecci, carpini neri e orientali dalle chiome alte e ondeggianti, e olmi dalle foglie seghettate. La pelle rugosa del bosco era animata da barbe vegetali di viburni e ornielli, cespugli di lentisco dalle bacche nerissime, alaterno e terebinto e pungitopo e rare chiazze di corbezzoli coi frutti ancora acerbi.

Il bosco delle Calcinaie prendeva il nome dagli antichi crateri artificiali che ne costellavano il sentiero abbandonato, nei quali la pietra era spaccata, sbriciolata dal lento lavorio delle querce ardenti. E se fra quegli alberi uno solo spiccava per l’enormità del tronco, ampio quanto cinque uomini in cerchio, era perché tutti i suoi fratelli antichi erano stati sacrificati sull’altare del Grappa, per edificare trincee, contenere terrapieni, riparare guerrieri fradici di fango e del puzzo del terrore.

Di lì, dal bosco eterno, veniva quel legno ora marcito dopo un secolo di sbiadite memorie. Si narrava che nel bosco delle Calcinaie vivessero antichi spiriti un po’ bislacchi e impertinenti, c’era pure chi giurava che non fossero affatto dei burloni, ma orripilanti e infidi, sicché evitavano di entrarci perfino cacciatori di frodo o raccoglitori di funghi e tartufi, tale era l’oscura fama di quei luoghi.

I pastori poi lo consideravano covo di lupi spelacchiati e rancorosi, colmi di rabbia per esser stati confinati dagli schioppi a quel ritiro, e le greggi neppure lambivano le radure attorno al bosco. Deviavano nettamente verso il lago, la valle retrostante in particolare era ritenuta luogo ideale per lascivi sabba di fattucchiere e demoni caprini i cui raduni notturni erano annunciati da filiformi serpenti di fumo che s’alzavano all’orizzonte e riverberi infuocati nel cielo, come di distanti artiglierie pesanti.

Alina e Roberto, scoperta la franchezza di un sentimento nuovo, fatto di cure e timidezza per lui, avvinto dalla loquace perfezione del corpo di lei, navigato, esplicito, mosso in quella dalla libertà di non dover apparire, di poter essere infine, disposero di allontanarsi in cerca di solitudine oltre il fronte della diga, lontano dal lago, per una via erbosa dapprima solatia e infine umbratile che conduceva al cuore del bosco.

Upupe meste mandavano i loro lamenti nel pomeriggio stracco dell’estate, la luce filtrava dalla sommità degli alberi al lento fruscio delle cime. Alina e Roberto si davano la mano non ancora pervasi da sospetti o paure, benché lui sapesse delle leggende nere. Camminavano sulle foglie peste d’un percorso già provato, sfiorando le felci protese sulla stretta via. D’un tratto vide Roberto alzarsi come l’ombra di un fumo grigio da un albero più ampio, in alto, sul lato sinistro del sentiero, dove brillava l’ultimo sole.

Era una quercia nodosa in mezzo a più giovani lecci. Si fermò. “Sst!” le fece, avvicinando il più possibile le labbra all’orecchio della sua pelle profumata e indicò l’albero. Senza che potessero reagire in fuga o terrore o angosciose grida, dall’albero comparve un uomo giovane quasi quanto loro, in uniforme grigioverde, la giubba coronata dal colletto in piedi nero, con due stellette a cinque punte. In testa l’elmetto Adrian bacato. Fumava a tratti infastidito dalla loro presenza, il volto fresco, bianco, coi baffetti spuntati, si sarebbe detto, da poco. Prese a fissarli con crescente attenzione, come se riconoscesse in loro qualcosa o qualcuno.

Si chinò lentamente sulle gambe avvolte fino alle ginocchia da fasce mollettiere incrostate di fango e sangue secco. Passò la sigaretta ad una mano che sporgeva dal terreno, di militare in grigioverde anch’egli. Gli fece un cenno. Ed ecco sbucò dalla trincea l’altro, col berretto 1909 calzato, e li fissò con stupore. In rapida progressione emersero a decine, a grappoli, dalla trincea i soldati per guardare quel fenomeno nuovo, quei due ragazzi amanti alla ricerca di un’alcova selvatica.

Roberto e Alina resi immobili dai brividi volsero lo sguardo intorno e videro che anche dall’altro lato della via, a pochi metri dalle felci, ritti allineati soldati bassi e alti e tozzi, dalle sopracciglia ora unite ora coperte da una benda pezzata di rosa, con gli zigomi sporgenti o i volti lisci adolescenti ancora, li guardavano muti.

Finché dal fondo del sentiero innanzi a loro un reggimento non prese ad avanzare col fucile Carcano in braccio e la baionetta innestata, e non restò loro che fuggire volando quasi più forte del ritmo del cuore, senza guardarsi alle spalle, senza aver tempo per respirare.

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