Avere i conti in ordine è facile se si ha un azionista che invariabilmente ripiana le perdite. Non è la prima volta che il Teatro alla Scala può beneficiare di un contributo extra per evitare passivi di bilancio. Quest'anno è il turno del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, che a quanto pare con 2,5 milioni di euro potrà consentire di chiudere il bilancio 2013 in pareggio. L'assegno straordinario staccato da Roma dovrebbe servire a liberare risorse accantonate, che potranno così essere utilizzate per far quadrare i conti.
Di fronte a tali notizie viene da chiedersi se il problema della Scala non stia, invece che nelle norme lesive della propria autonomia, nella sua stessa gestione. Dalla conversione in legge del decreto cultura, si sono levate le proteste verso le nuove regole che penalizzerebbero l'istituzione meneghina. Da quando, infatti, prima il Tar del Lazio e poi il Consiglio di Stato hanno annullato il decreto che concedeva «forme organizzative speciali» all'Accademia di S. Cecilia e alla Scala, queste due istituzioni sono tornate a ricevere lo stesso trattamento delle altre 14 fondazioni lirico-sinfoniche.
Portare da 11 a 7 i membri del consiglio di amministrazione avrà sicuramente effetti negativi sulla possibilità di raccogliere fondi privati. Soprattutto se tale misura si accoppia con quella che prevede il controllo pubblico dei Cda: la maggioranza, in ogni caso, deve infatti essere costituita da membri designati da fondatori pubblici.
Perché il privato non sia solo un bancomat, occorre che gli venga riconosciuto un ruolo nella gestione. Il privato non è unicamente un soggetto in grado di fare affluire maggiori risorse, ma anche di contribuire con le proprie competenze manageriali a una migliore conduzione dell'ente. Se si vuole aprire le porte ai privati, occorre pertanto metter loro a disposizione posti nei consigli di amministrazione. Se il numero di posti si assottiglia, si riduce anche la possibilità di avvalersi del loro contributo.
Per il rilievo internazionale e per il valore artistico delle sue proposte, la Scala ha una attrattività e una visibilità che non ha pari in Italia. Per questo è in grado, già oggi, di calamitare intorno a sé risorse private maggiori rispetto alle altre fondazioni. In virtù di tale fatto è giusto che il teatro milanese sia considerato «a parte» e che, come tale, possa crearsi uno statuto ad hoc capace di valorizzare le proprie caratteristiche.
Non si tratta però solo di un problema di «norme», una riflessione va fatta pure sulle modalità in cui il teatro è stato gestito in questi anni. Se per ottenere bilanci in pareggio si è dovuti ricorrere a interventi straordinari di soggetti pubblici, vuol dire che le gestioni non sono state particolarmente virtuose. A maggior ragione se si pensa che lo Stato elargisce ogni anno 30 milioni di euro e che il totale dei contributi pubblici si aggira tra i 40 e i 45 milioni di euro annui.
Da una parte le nomine fatte dai soci pubblici non sempre rispondono a criteri di competenza, ma piuttosto di fedeltà, appartenenza, riconoscenza o altro ancora. Dall'altra la Scala rappresenta uno dei salotti buoni che è bene frequentare, e ai soci privati interessa forse principalmente la visibilità derivante dal far parte del Cda. Tutto ciò è alla fine possibile perché manca l'aspetto della sanzione: se qualcosa non ha funzionato nella conduzione dell'ente culturale, in Italia interviene lo Stato o qualche altro ente pubblico.
Un recente studio realizzato dalla Bocconi mette in evidenza coma le Royal Opera House, per ogni euro di finanziamento pubblico, ottiene 2,8 euro dai privati (1,49 euro se si esclude il botteghino). La Scala ne ottiene invece 1,46 (0,76 senza botteghino).
Gestire un teatro in maniera più virtuosa si può, ma i continui interventi pubblici non aiutano a conseguire tale obiettivo.
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