Dagli atomi alla lana. Cosi Guida un impero nel segno di Luisa

Dopo la carriera scientifica ha preso in mano le redini del brand. Quasi tutto al femminile.

Dagli atomi alla lana. Cosi Guida un impero nel segno di Luisa

È presidente, amministratore delegato, dottore in chimica e farmacia, cavaliere del lavoro e membro del comitato esecutivo di The Aspen Institute, l'associazione internazionale non profit che incoraggia ogni forma di leadership illuminata. È anche alta, bionda, con gli occhi azzurri e un bel fisico longilineo: il classico tipo di donna che tutti si girano a guardare. Qualcuno lo fa con ammirazione, altri con invidia e quelli che conosco la sua storia con tanto rispetto. Infatti Nicoletta Spagnoli da 34 anni esatti ha sulle esili spalle l'enorme responsabilità di un'azienda-simbolo del made in Italy con 900 dipendenti nel mondo, quasi tutti (il 90% dei casi) di sesso femminile. A fondare e a dare il nome all'impresa è stata nel 1928 la sua bisnonna, Luisa Spagnoli. Nata a Perugia nel 1877, a 30 anni era già sposata, separata dal marito e sentimentalmente legata a un uomo più giovane: Giovanni Buitoni. Con lui ha fondato la Perugina, una pasticceria rinomata per i suoi dolcetti di cioccolata con le nocciole. Si chiamavano «cazzotti», nome che nel 1921 pensa bene di cambiare in «bacio» inserendo una variante fondamentale nella ricetta perché per recuperare la graniglia la fa includere nell'impasto del cioccolato. Nascono così i Baci Perugina dal cui successo dipende la nascita di una delle più importanti aziende italiane di moda nel mondo.


Cosa c'entrano i cioccolatini con i maglioni?


«Con i proventi dell'impresa dolciaria la bisnonna ha finanziato l'allevamento del coniglio d'angora. Gli altri li tosavano mentre lei li faceva pettinare ottenendo un filato straordinario che ancora oggi rende inconfondibili la nostre maglie. L'avventura di Luisa Spagnoli nella moda comincia così».


E la sua come comincia?


«Ho sempre avuto una grande passione per il disegno tanto che da ragazza avevo fatto un corso di cartellonistica. Così quando nel 1983 sono rientrata dagli Stati Uniti, mio padre mi ha assunta come disegnatrice in appoggio all'ufficio stile e alla pubblicità. Timbravo il cartellino come tutti, ma sulla dura disciplina del lavoro mi ero già fatta le ossa nel mondo scientifico».


Tocca chiederle: cosa c'entra la scienza coi maglioni?


«Poco o niente. Di fatto ero portata per le materie scientifiche oltre che per il disegno. Così mi sono laureata in chimica e farmacia decidendo, dopo la laurea, di rimanere in università come ricercatrice e insegnante di appoggio. A 24 anni mi sono ritrovata a tenere da sola come supplente le lezioni di Chimica farmaceutica 1, un corso durissimo visto che gli esami si fanno solo sugli appunti. Poi sono andata a San Diego per pubblicare un lavoro con il professor Wenker. Mi occupavo delle aflatossine. Dopo l'11 settembre ho scoperto che vengono usate come armi chimiche e spappolano il fegato. Per fortuna mi si era formato un isomero sbagliato ma in ogni caso ho fatto davvero una gran fatica nel mio periodo per così dire scientifico».


Insomma torna a casa e che succede?


«Tre anni dopo il mio rientro dall'America mio padre muore all'improvviso e io da semplice disegnatrice mi ritrovo amministratore delegato. È stato uno choc, passavo le notti a chiedermi: quanto potrà resistere l'azienda con me? Eppure lo dovevo fare, l'aveva stabilito da tempo il papà d'accordo con me e i miei fratelli. Dei tre ero quella che conosceva meglio la Luisa Spagnoli perché grazie alla mia passione per il disegno fin da bambina passavo interi pomeriggi negli uffici dei creativi. Così ci siamo divisi i compiti. Mio fratello Mario presidente, io ceo e mia sorella Carla nel consiglio di amministrazione. Lei voleva dedicarsi essenzialmente alla famiglia».


Lei ci ha rinunciato?


«No, ho un figlio di 26 anni che è più importante di qualunque altra cosa nella mia vita. Certo, non ho una famiglia tradizionale: sono sposata con il mio lavoro e anche se credo che sia possibile conciliare la vita privata con gli impegni professionali, a me non è successo».


Le spiace molto?


«Non sono tipo da rimpianti e recriminazioni. E comunque non sono mai stata completamente sola. Quando è nato mio figlio mi aiutavano mia madre e la mia bambinaia. Sono tornata in azienda a lavorare due settimane dopo il parto inoltre la mia casa è qui attaccata, per cui in due minuti passavo dalle riunioni all'allattamento, un bell'esercizio per inquadrare le vere priorità».


Anche suo figlio è così attaccato all'azienda?


«Anche di più... non lo dico da madre ma da manager che intorno vorrebbe solo gente con passione. Lui ne ha tanta e lavora parecchio: per la prima volta in tanti anni trovo una persona su cui mi posso appoggiare. Ad aiutarmi così prima era mio padre ma dopo la sua scomparsa solo mio figlio ha saputo darmi lo stesso tipo di aiuto».


Ma la vostra non è un'impresa al femminile?


«Per certi versi sì, ma quando è stata fondata nel 1928 fa era solo un'azienda artigianale e la bisnonna è mancata 7 anni dopo. L'artefice dell'espansione è stato mio nonno Mario, un altro genio imprenditoriale. Lui regalava coppie di conigli ai vicini con un kit di mantenimento che aveva brevettato e prevedeva anche i medicinali. Con un investimento minimo creava degli allevamenti da cui poi ricomprava la lana. Prima della Seconda guerra mondiale in Italia ce ne erano 5.000 e noi avevamo l'angora più bella. Poi quando è scoppiato il conflitto ha deciso di mettere in salvo le macchine per la produzione. Le ha sotterrate nel giardino della casa di famiglia, vicino alla fontana. Non se ne è accorto nessuno. Ha pure inventato una macchina per cuocere gli spaghetti, oltre alla cosiddetta Città dell'Angora».


Di cosa si tratta?


«È un modello d'industrializzazione geniale per cui all'interno di una moderna fabbrica del dopoguerra è stato costruito un vero e proprio borgo rurale con tanto di piscina (tuttora esistente anche se utilizzata come vasca della tintoria, ndr) asilo nido e piazza degli Artigiani su cui si affacciano diverse botteghe: fabbro, segheria, falegname, ebanista, imbianchino, stagnaro, medico e pediatra. Abbiamo recentemente scoperto che le aveva fatte affrescare da Gerardo Dottori, il pittore futurista di Perugia. Ho fatto restaurare questi affreschi in tempo per il novantesimo anniversario dell'azienda».


Suo padre che tipo d'imprenditore era?


«Era più un uomo di numeri: nel giro di 20 anni ha aperto più di 90 negozi. Voleva un'azienda snella e a diretto contatto con la propria clientela per cui negli anni Ottanta decise di chiudere tutti i multibrand e le boutique all'estero. Sono stata io nel 2005 a riaprire con la Russia e adesso siamo presenti in oltre 40 Paesi. Abbiamo 55 monomarca è una novantina di multibrand».


E le vendite online così importanti di questi tempi?


«Nessuno le può e tantomeno vuole ignorarle. Personalmente credo che il digitale diventerà un approccio complementare ma non sostitutivo al 100 per 100. Dopo questa tragedia che ha colpito il mondo, la gente è tornata a valori che il fast fashion ci aveva fatto dimenticare: qualità, servizio, attenzione ai dettagli. Dopo il lockdown abbiamo predisposto servizi come l'appuntamento in boutique, la possibilità di scegliere un certo numero di capi sanificati da provare comodamente a casa, la consegna a domicilio degli acquisti effettuati. Per le nostre clienti c'è pure un servizio di styling con videochiamate predisposte su Zoom».


Pensa di sfilare il prossimo settembre a Milano?


«Sinceramente non lo so. Non la vedo troppo bene. Noi in ogni caso ci siamo preparati pensando prima di tutto alla forza vendita. Ci siamo affidati a una piattaforma di showroom virtuali (Joor, ndr) e abbiamo fatto vedere i look sulle modelle. Questo strumento ci permette sia di comunicare con i clienti sia di entrare in contatto con eventuali partner che sono sulla piattaforma».


Pensa che la sua bisnonna sarebbe fiera di

lei?


«Me lo chiedo spesso come mi chiedo ogni volta che devo prendere una decisione difficile cosa ne penserebbe mio padre. Ho fatto mio il motto dell'azienda: bisogna saper guardare indietro per guardare avanti».

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