Eliche e coraggio per quella guerra tutta in picchiata

Cavalieri dell'aria. Assi. Quei pazzi sulle macchine volanti. E poi più recentemente top-gun. Solo alcune delle definizioni che normalmente vengono usate per i piloti da caccia. Quelli che a partire dalla Prima guerra mondiale sono diventati i nuovi eroi dei conflitti nell'era della tecnica. Un destriero alato al posto del cavallo, l'enormità del cielo per dar vita a giostre di sangue, a girotondi mortali. E poi dopo lo schianto - quasi inevitabile per chi a un certo punto non smette di volare e combattere - il mantello della gloria che ammanta l'uomo e lo pietrifica, trasformandolo in un eroe, in un mezzo busto con medaglia. Riducendo il tutto a un elenco di nomi più o meno famosi, e di vittorie: Manfred von Richthofen 80 abbattimenti, René Fonk 75, Erich Alfred Hartmann 350...
Ecco, tutte queste cose spariscono se si sfoglia un libro rimasto per moltissimo tempo lontano dalle librerie italiane. Si intitola L'ultimo nemico (Castelvecchi, pagg. 188, euro 18,50). L'autore, Richard Hillary, è quello che oggi si definirebbe uno scrittore ragazzino: finì di vergare queste pagine, nel 1942, a 23 anni. Solo che Hillary non era più un ragazzo a 23 anni, era un pilota della Raf, un combattente che aveva portato in cielo il suo spitfire innumerevoli volte. Il 3 settembre 1940 lo avevano anche abbattuto. Un brutto affare. Gli avevano appena cambiato il tettuccio dell'aereo. Scorreva male, lui e il meccanico avevano provato a lavorarci con la lima. Ma l'allarme era scattato all'improvviso, 50 Messerschmitt stavano dirigendosi verso la zona di sorveglianza. Hillary si alzò in volo con altri sette velivoli della Raf. Con quel rapporto di forze c'era poco da fare. Colpì un aviatore tedesco, poi una raffica fece andare in fiamme il suo apparecchio. Lottò per un tempo infinito per aprire il cupolino difettoso, mentre il fuoco stava già divorando la sua tuta di volo, le sue mani, il suo viso. Poi venne sbalzato dall'aereo in avvitamento. Rimase per ore a galleggiare nel mare del Nord. Il dolore delle ustioni e la disperazione lo spinsero a tentare il suicidio. Non ci riuscì: «Le persone che sono state sul punto di morire nell'acqua dicono che affogare è una morte piacevole, ma in questo non sono d'accordo con loro. Provai... non mi riuscì di tenere la testa sotto». Quando venne salvato fu trasportato in ospedale, dove venne sottoposto a innumerevoli e dolorosi interventi.
Fu in quella “pausa” dal combattimento che il suo racconto autobiografico iniziò a prendere forma. In fretta, perché Hillary voleva riprendere a volare, nonostante le mani ormai quasi inservibili, e gli occhi a cui avevano dovuto ricostruire le palpebre. Voleva tornare in cielo, anche se ormai sentiva di non avere nessuna speranza di sopravvivere alla guerra. E giù dal cielo cadde in un volo notturno dell'8 gennaio del 1943, al comando di un bombardiere leggero, perché nelle sue condizioni i caccia erano ormai ingestibili.
Di lui è rimasto questo libro e una manciata di lettere. Eppure questo testo, genialmente acerbo, è davvero una delle narrazioni di guerra più belle mai fatte. Al fondo c'è un terribile realismo. Mai crudo, anzi spesso temprato da un'ironia triste, tipicamente britannica. Racconta una generazione colta e svagata di ragazzi di Oxford che credeva che in fondo tutto potesse concludersi con una bella regata contro gli equipaggi delle università tedesche. Si ritrovarono sbalzati in tutt'altra tenzone. Passarono dai libri e dalle gite in automobile ad alzarsi nella notte su primitivi aerei d'addestramento. E a morirci prima ancora di incontrare i tedeschi. Furono costretti a imparare tutto e subito. Alcuni precipitarono semplicemente per essersi dimenticati che una piccola spia rossa quasi invisibile indicava la fine della benzina, o perché non c'erano addestratori a due comandi per lo Spitfire: si faceva pratica su qualche vecchia carretta e poi su da soli, sopra uno dei caccia a elica più veloci del mondo.
Di questi ragazzi Hillary fa sempre i nomi. Di questi ragazzi Hillary si sentiva l'ultimo. Bastarono i suoi mesi d'ospedale perché la maggior parte dei suoi compagni venissero sterminati. Ecco perché nella chiusa del libro tornano tutti: «Guardai in alto su nella notte. Erano da qualche parte, tutti intorno a me; morti forse ma non scomparsi. Ogni volta che salivano sui loro apparecchi e partivano per un combattimento, offrivano d'istinto un omaggio ai loro compagni morti... Ma io! Cosa avevo fatto cosa potevo fare ora?». La risposta è stata proprio L'ultimo nemico. E il risultato non è stato solo un testo di “memorie”. Come ha scritto Arthur Koestler, il grande filosofo ungherese che Hillary aveva conosciuto, e che volle fare la prefazione al libro di questo aviatore ragazzino: «Questo volume di Hillary sembra avere un peso specifico che lo fa scendere nelle profondità della memoria di chi lo legga, mentre tonnellate di carta stampata galleggiano alla deriva come relitti sulla sua superficie».


Perché il libro indaga tutti i risvolti dell'uomo spinto al limite, senza concessioni agli eroismi da operetta o al pacifismo: «Le emozioni del pilota sono quelle del duellante. Ha il privilegio di uccidere con arte. Lui era morto, e io ero vivo. Sarebbe potuto accadere anche il contrario; e anche questo in un modo o nell'altro sarebbe stato giusto».

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