Il "fascioromanzo" spezzerà le reni a tutti i conformismi

Gialli ambientati nel Ventennio o le vicende degli operai di estrema destra. La letteratura riscopre un pezzo scomodo della nostra storia

Il "fascioromanzo" spezzerà le reni a tutti i conformismi

È arrivato il momento in cui il fascismo viene sdoganato dalla letteratura? Andrea Di Consoli con La collera (Rizzoli), Marco Ciriello con il commissario Valenzi, fascista, rugbista, orgoglioso del lavoro fatto a Genova e di Almirante de Il Vangelo a benzina (Bompiani), Roberto Costantini con la trilogia di Michele Balistreri (i primi due usciti sono Tu sei il male e Alle radici del male, Marsilio), Umberto Lenzi e Maurizio De Giovanni con le serie poliziesche ambientate nel Ventennio, protagonisti il detective privato Bruno Astolfi e il commissario Ricciardi (rispettivamente Rizzoli e Einaudi): si tratta di una serie di romanzi, tutti in libreria da pochissimo (compresi gli ultimi episodi dei “noir seriali”, Vipera per Maurizio De Giovanni e Spiaggia a mano armata per Lenzi), in cui i protagonisti sono fascisti credenti e praticanti oppure in cui il fascismo è non solo il tempo e l'ambiente della storia, ma anche l'atmosfera e l'ideologia dominante. A leggerli, sembra che, una volta seguìta attentamente l'avvertenza di metterlo in fiction, del fascismo si possa non solo parlare senza censure e iperrealismi, ma immaginando ferventi protagonisti dal cuore nero.

Se il pioniere dello scavo resta inequivocabilmente Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi (Mondadori) e il suo scriteriato Accio Benassi e se ideale prosecutore rimane Pietrangelo Buttafuoco con le sue Uova del drago (Mondadori), pare che le fila degli autori che vogliono scoperchiare il senso di un'epoca fino a qualche anno fa intoccabile si siano notevolmente ingrossate. «Michele Balistreri è il personaggio idelogicamente più discutibile del noir italiano» ci spiega Costantini. «In Alle radici del male, il mio personaggio dice a un senatore dell'ex PCI che gli italiani sono traditori perché hanno imparato da una classe politica che è nata tradendo il proprio Paese durante una guerra e, così, hanno imparato che la convenienza viene prima della realtà. Questa posizione estrema, discutibile, offensiva per chi considera intoccabili certi valori, non ha una valenza politica di parte e non guarda al passato o allo sdoganamento del fascismo, ma al futuro. Perché non c'è futuro, secondo Balistreri, per l'Italia se non si recupera un senso “antico” del lavoro e dell'etica individuale, quello in cui il benessere si costruiva lentamente, giorno per giorno, trasformando il deserto in uliveti come suo nonno in Libia».

E, come in un coro di convinti assertori del gusto che la fiction può prendersi di mettere in discussione qualunque dogma, Andrea Di Consoli, creatore del fascioperaio Pasquale Benassìa de La collera, che negli anni Settanta vive «da destra» la catena di montaggio della Fiat, fa eco: «Con il passare degli anni scopro che nulla m'interessa più dell'Italia, dell'italianità. E, dell'Italia e dell'italianità, il fascismo è stato il punto più alto e, si capisce, anche il più basso».

È sufficiente questo a saltare il fosso e mettersi in gioco come narratore creando un protagonista così controverso? E soprattutto, come non aver paura dell'identificazione di un romanzo “fascista” con un autore “fascista”? «Ho ambientato La collera negli anni '70 del '900, e dunque ho raccontato il neofascismo che, del fascismo, è stato un superstite parossismo espressionistico, un protervo culto della sconfitta e dell'onore, un cupo teatro del corpo», ribatte Di Consoli. «Non mi fa paura parlare, scrivere, pensare di fascismo e di fascisti. Come cittadino mi ritengo robustamente antifascista; come scrittore, invece, questa convinzione mi sta stretta, perché c'è una parte di me che irrazionalmente intuisce che ci fu almeno un giorno, un'ora, un minuto che lo Stato, chi lo guidava, la geografia, la storia, gli italiani vivi e morti furono un tutt'uno armonico. Come scrittore, infatti, sento di avere il diritto di scendere con la mia mente, senza pregiudizi, finanche nelle cantine più buie della storia del mio Paese».

Non si tratta dunque di un “filone”, quello della “fasciofiction”, che potrà o meno affermarsi, ma dell'espressione di uno snodo dello sguardo di un Paese di cui la letteratura si fa interprete con molti stili differenti, come quello personalissimo di De Giovanni, che spiega: «Quando pensiamo al fascismo pensiamo al periodo fascista, e dal punto di vista narrativo questo ha un innegabile fascino, fatto di musiche d'orchestra, di balli, di cappotti rivoltati e sale piene di fumo; e anche di un crimine ingenuo, violento ma disorganizzato, lontano da quello attuale fatto di alta finanza, politica e mafie. In realtà il fascismo è altro: la prevaricazione, la negazione di una dialettica, la violenza morale.

La narrativa nera incontra il fascismo come idea e come periodo e non

resiste alla tentazione di scandagliarne l'anima, trovando in essa quelle radici oscure che sono la premessa del delitto, individuale e di massa. Credo che sia questo il fascino dei fascismi nel nostro modo di raccontare».

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