Il gelo, il silenzio, poi l'ordine: così l'Impero giapponese attaccò l'America

L'attacco a Pearl Harbor iniziò il 26 novembre del 1941, quando dalla baia di Hitokappu le navi della Kido Butai salparono alla volta della base americana

Il gelo, il silenzio, poi l'ordine: così l'Impero giapponese attaccò l'America
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Il 26 novembre del 1941, la baia di Hitokappu si presentava gelida come ogni anno. Quel lembo delle Isole Curili, oggi sotto il controllo della Russia, era l'estremo limite dell'Impero giapponese nel freddo mare al nord del suo potere. Una terra praticamente disabitata, coperta per lunghi periodi dell'inverno da una fitta coltre di nebbia che rendeva impossibile vedere al di là di poche centinaia di metri.

Il sole non riusciva a scaldare a dovere quella terra dimenticata dalla frenesia dell'Impero, dove tutto sembrava fermo nel tempo apparentemente immutata da secoli e dove gli occhi e le orecchie straniere non erano mai giunte. Non c'era ombra di persone arrivate dall'esterno, nemmeno di esperti e coraggiosi pescatori che partivano alla ricerca di qualche banco di pesce lontano dalle rotte più trafficate. La popolazione locale, estremamente ridotta di numero, e di etnia Ainu, non parlava o quasi giapponese. L'inverno, che sull'isola di Etorofu era già da tempo una realtà, rendeva l'isola praticamente inadatta a qualsiasi tipo di attività, isolata, senza alcun contatto, con le strade ghiacciate e qualche mulattiera che solcava la baia. Tutto sembrava fermo, immobile, come se la neve, il ghiaccio e la nebbia avessero congelato l'isola fino allo sbocciare delle prime gemme della nuova primavera, che si sarebbe affacciata soltanto tra qualche mese.

Ma l'isola era ferma solo in apparenza. In quell'immobilità del rigido inverno che aveva coperto l'isola di Etorofu si celava una flotta che avrebbe sconvolto per sempre gli Stati Uniti, scatenando l'attacco più famoso del Giappone nella Seconda guerra mondiale: quello contro Pearl Harbour. L'operazione Z, che avrebbe obbligato gli Stati Uniti a scendere in guerra al fianco degli Alleati, iniziò da lì, da quella baia delle isole Curili dove i marinai dell'Impero aspettavano da giorni, al vento del Pacifico, le notizie che arrivavano dai negoziati tra Tokyo e Washington. Negoziati che erano destinati al fallimento, tanto che ben prima della conclusione della discussione, dai comandi dell'Impero arrivò l'ordine di salpare alla volta delle isole Hawaii.

I marinai erano arrivati lì da quattro giorni con l'ordine di aspettare, di tacere, di scomparire nel freddo silenzioso e irreale di Etorofu (oggi in russo Iturp) fino a nuovo ordine. Erano centinaia, e con loro una flotta di navi e aerei pronti a scatenare l'infenro sull'avamposto navale degli Stati Uniti. Quegli uomini componevano la Prima Flotta aerea dell'Impero giapponese, la Kido Butai comandata dal viceammiraglio Chuichi Nagumo. Agli ordini di Nagumo, un comandante di Yamagata che non aveva la benché minima conoscenza dell'uso dell'aviazione aeronavale, c'erano sei portaerei, otto cacciatorpediniere, un incrociatore leggero Abukuma, due corazzate, due incrociatori e diversi sommergibili. Una squadra di riserva e rifornimento li avrebbe scortati da lontano per intervenire nelle prime fasi dell'attacco a Pearl Harbor e dedicarsi ad altre rappresaglie nelle basi americane del Pacifico.

L'attesa finì il 26 novembre del 1941. L'ammiraglio Isoroku Yamamoto, con un ordine spedito il 25 novembre insieme a quello di annullare tutto in caso di notizie positive dalle discussione tra delegati americani e giapponesi, diramò l'annuncio di iniziare le operazioni di attacco alle 6 del mattino ora di Tokyo. Tutto nel più rigoroso silenzio radio. Lo stesso che aveva contraddistinto la vita di comandanti e marinai in quei giorni di attesa tra la pioggia e il vento gelido della baia di Hitokappu. In due, forse tre ore, la baia si vuotò del tutto.

La Kido Butai aveva preso il largo con una rotta verso Sud-est, direzione isole Hawaii. Ma fu scelta la rotta nord, quella più lontana ma considerata meno individuabile da occhi indiscreti. Si mossero le sei portaerei, la Kaga, la Akagi, la Soryu, Ia Hiryu, la Shakaku e la Zuikaku. Insieme alle sei portaerei, si erano unite le corazzate Hiei e Kirishima e gli incrociatori Tane e Chikuma. Si mosse l'incrociatore leggero Abukuma alla testa delle nove torpediniere. E invisibili nelle gelide acque del Pacifico salparono anche i tre sommergibili di pattuglia I. 19, I.21 e I.26. Loro, lontani centinaia di miglia dalla flotta di superficie, avrebbero fatto da apripista alla flotta con un ordine tassativo: comunicare l'avvistamento di qualsiasi imbarcazione e dare così inizio alle procedure di affondamento. Non importava la bandiera: avrebbero colato a picco chiunque, anche giapponese, avesse visto la Kidu Butai percorrere la sua rotta mortale verso Pearl Harbor.

Nagumo, alla testa del gruppo d'attacco, aveva iniziato così la traversata del Pacifico in attesa di un ordine che arrivò sei giorni dopo e che sarebbe divenuto famoso in tutto il mondo:

"Niitaka fama Nobore", "Scalate il monte Niitaka". Era il segnale che le trattative erano fallite: la flotta avrebbe colpito Pearl Harbor il 7 dicembre. E il mondo non sarebbe più stato come prima.

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