Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro figurativo di buona qualità, facilmente comprensibile ai più e appendiamolo all'interno di un'ipotetica Pizzeria Marechiaro. Al termine della cena qualcuno ne chiederà il prezzo al ristoratore che sarà felice di venderlo intorno ai 200 euro. Stando lì non potrebbe costare di più. Lo stesso dipinto poi lo trasferiamo in una buona galleria di Milano, nota per la ricerca e la serietà professionale: la cifra da pagare si alzerebbe almeno a 3-4 mila euro, meno non avrebbe alcun senso. Ultima tappa, il nostro dipinto approda a una mostra presso un grande museo, l'artista ottiene il riconoscimento internazionale e la sua valutazione schizza così a decine, in qualche caso anche centinaia di migliaia di euro.
Da quando cioè prevale la teoria secondo cui è il contesto a «fare l'arte», la pittura ha assunto il ruolo di ultimo ready made. Perché, paradossalmente, l'oggetto più strano e anomalo oggi è il primo cittadino del museo, mentre chi opta per un linguaggio tradizionale e universalmente noto come la pittura incontra resistenze e diffidenze, più spesso rifiutato che accettato dal sistema dell'arte.
Interrogarsi sulla contemporaneità della pittura è arduo ma stimolante. Tutti i critici, anche chi non è uso frequentarla, ci provano almeno una volta. Demetrio Paparoni, fin dai tempi in cui dirigeva Tema Celeste, unica credibile alternativa a Flash Art quando le riviste contavano eccome, è tornato ciclicamente sulla questione analizzando l'astrazione americana dei primi anni '90, sempre attento alle proposte italiane e, di recente, ha rivolto lo sguardo verso Oriente, direzione Cina soprattutto. Le sue indagini, dunque, risultano sempre puntuali e militanti, così come l'ambizione del fare ordine su un mondo estremamente contraddittorio e mutevole.
La domanda, però, è sempre la stessa. Come e quando si può definire contemporanea un'opera pittorica? La mostra Le nuove frontiere della pittura da poco inaugurata al Refettorio delle Stelline di Milano (fino al 25 febbraio 2018), è l'ultima risposta del curatore che, per la verità, non pesca tanto nell'ultima generazione ma tra quelle figure già ampiamente consolidate sul mercato. Preferisce infatti lavorare sul sicuro, che gli dà più garanzie di tenuta nel tempo. La pittura è una cosa seria e tante ne abbiamo viste di promesse perdersi per strada. Propone quindi, tutti con lavori di qualità e di grande formato, gli artisti emersi fin dai primi anni 2000: tra gli altri i belgi Francis Alys e Michael Borremans, gli americani Jules De Balincourt e Dana Schutz, i tedeschi Matthias Weischer e Sophie Von Hellerman, il polacco Wilhelm Sasnal, il rumeno Victor Man, i cinesi Zhang Huan e Liu Xiaodong.
Da questa mostra vivacissima emergono, in particolare, tre dati. Il primo: la pittura non ha più alcun legame territoriale, ad eccezione forse di quella cinese e non c'è più una nazione prevalente (come un tempo la Francia o gli Stati Uniti); al pari delle altre arti, anche la pittura è fatto globale. Il secondo: vale tutto, non c'è differenza tra figura e astrazione, tra gesto e segno, tra realismo fotografico e ricorso ai new media; anzi, sullo stesso dipinto possono convivere stili e linguaggi diversi, recuperando così quella componente sperimentale e libera che ne caratterizzò la vicenda agli inizi del Novecento. Terzo (elemento che appare il più significativo): lo spazio dedicato alla produzione italiana, regolarmente esclusa dai curatori internazionali e dagli strumenti di tendenza, vedi i volumi Phaidon della serie «Vitamin P».
Ecco. Paparoni seleziona cinque di italiani, tutti con un curriculum che comincia a essere significativo, a partire da Alessandro Pessoli da tempo trasferitosi a Los Angeles. Ridà fiato a Margherita Manzelli, molto incensata all'inizio della carriera e in ultimo un po' in ombra anche se i suoi soggetti sono rimasti sempre gli stessi. Recupera il bravo Nicola Verlato, iperrealista coraggioso e colto, che tratta il mondo dei cartoon come figure manieriste.
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