Si tratta di uscire dal buio infinito di un portiere di notte per entrare nel giorno di una nuova vita. Si tratta di fare un figlio, per quanto con lausilio della fivet, come la chiamano le infermiere e le signore in attesa della dolce attesa, cioè della «fecondazione in vitro con embryo transfer». Un figlio (meglio sarebbe una figlia, pensa il portiere di notte aspirante papà) che dopo quattro anni di matrimonio proprio non ne vuole sapere di arrivare da solo, conducendo per mano un esponente della vasta schiera di animalcules-spermatozoi fino alla meta. Si tratta dunque, prima di tutto, in ordine temporale, di essere buono a una sega, parafrasando, e dando seguito materiale alla parafrasi, lespressione vernacolare «non sei buono a una sega», per dire che non vali niente, nemmeno una delle cicche di sigaretta che butti in un tombino quando esci dallhotel per prendere una boccata daria. Per cui, se qualcuno è arrivato al punto, bassissimo, forse lultimo gradino della scala sociale, di rubare le riviste pornografiche messe a disposizione dei clienti-pazienti maschi in un apposito stanzino dellOspedale della Versilia, si tratta di ripiegare sullelegante figura della biologa, la quale tanto gentile e tanto onesta pare quandella altrui aiuta, in spiritu, a svolgere, con la forza dellimmaginazione, il banale compitino eiaculatorio.
Si tratta, insomma, di leggere questo eccellente esordio, La generazione di Simone Lenzi, quarantaduenne livornese, paroliere e voce del gruppo di alternative rock Virginiana Miller (Dalai Editore, pagg. 158, euro 15, e in un secondo momento si tratterà di vedere il film che Paolo Virzì ne sta traendo, pare con ottimi risultati). Avendo cura però di non cadere nel ginepraio in cui lui stesso, il Lenzi-Narratore di un altro, limitrofo se stesso, è caduto a nostro uso e consumo. «Quello che molti non sopporterebbero senza perderci la ragione è proprio ciò che non cè da fare. È vivere tante ore nella propria mente», scrive. Perché vivere tante ore nella propria mente significa rimanere ostaggio dei propri neuroni, che poi tutto sommato sembrano anchessi animalcules, solo un po diversi dagli spermatozoi che cazzeggiano invece di fare il loro dovere; e da tutte le bestioline che Antoni van Leeuwenhoek, santo patrono del microscopio e scopritore dei protozoi, per primo osservò; e dai puntini neri che si vedevano sul televisore acceso quando i programmi non erano ancora iniziati e la tv era ancora in bianco e nero e trasmetteva A come Andromeda...
Se hai quarantanni, la barba nera (ma ancora ma per poco...) e modi gentili, può capitarti di sedurre involontariamente una piacente hostess cinquantenne, interrompendo per qualche minuto i tuoi pensieri scientifico-letterari e compulsivi come lo studio «matto e disperatissimo» di Leopardi: sugli esperimenti con le rane dellabate Spallanzani, sulle elucubrazioni di Comenio, sui progetti del Redi. Puoi anche risultare simpatico ai pochi ospiti che ricevi ogni tanto in casa con la tua mogliettina, la quale accoglie come puntuale maledizione le mestruazioni. Puoi persino essere di minimo conforto allaltrettanto puntuale passeggiatore notturno che parla da solo (ma non è forse vero che parliamo tutti da soli?). Però quando ti tocca uscire dalla dimensione di «pipistrello accecato che continua a girare in tondo senza sbattere contro le pareti» e farti assistere dalla scienza non libresca, non polverosa, non teorica, ma in carne e ossa, asettica, pratica, allora ti senti un animalculum sperduto. Dovresti cogliere lattimo, il frattempo «che è il tempo che sta fra la brevità della vita e la lunghezza dellarte». Così ti affidi al vecchio maestro Ippocrate: «La vita è breve, larte lunga, loccasione fuggevole, lesperimento pericoloso, il giudizio difficile».
Al ritmo delle sue verità, mentre i gameti rotolano come dadi sul tavolo dellimponderabile, scandisci la tua opera al nero. E, daccordo con il lettore, vorresti aggiungere unaltra verità, la più opinabile e certa: il Fato è crudele.
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