John Fante, pieno di vita anche di fronte al dolore

Scrittore nato, il romanziere Usa fece mille lavori prima di approdare all'odiata Hollywood. Era sempre infuriato e impegnato in strani progetti ma non si piegò mai. Neppure davanti alla malattia

John Fante, pieno di vita anche di fronte al dolore

Sono passati almeno venticinque anni da quando l'opera di John Fante, riproposta sull'onda della riscoperta iniziata negli Stati Uniti, si è imposta nel pantheon ideale del lettore italiano. Le Lettere (1932-1981) pubblicate ora da Einaudi - traduzione delle Selected letters curate da Seamus Cooney integrata da un'introduzione di Francesco Durante - vengono dunque a colmare un vuoto avvertito da molti e, grazie anche all'apparato biografico che affianca e contestualizza i testi, rappresentano uno strumento prezioso per chiunque voglia avvicinarsi alla comprensione di un autore più enigmatico di quanto l'omogeneità tematica della sua narrativa possa indurre a credere.

Il primo tra i punti fondamentali su cui le lettere permettono di far luce è, fin dall'inizio, il rapporto tra autore e opera, su cui Fante stesso si pronuncia scrivendo a un redattore dell' American Mercury : «Arturo sono io». Bandini c'est moi , dunque - e come non riconoscere il celebre personaggio nel giovane Fante che, armato solo di una coscienza del proprio talento così salda da rasentare la spacconeria, si lancia alla conquista della metropoli del cinema? Obiettivo non facile, beninteso, perché «Los Angeles è una città molto dura da conquistare. È troppo grande. Milioni di persone e nessun amico».

Secondo il canone biografico dello scrittore americano della sua epoca - come veniamo ad apprendere da un flusso costante di lettere inviate ai familiari - Fante fa mille mestieri prima di approdare a quello che gli sembra più adeguato, lo scrittore di soggetti e sceneggiature per il cinema. Scrivere sotto contratto gli procura soldi, è vero, ma è anche all'origine del rovello fondamentale di tutta la sua vita di narratore: il fatto che la fonte principale dei suoi guadagni non solo non coincida con la fonte delle sue soddisfazioni, ma finisca col danneggiare il suo talento. Fante non fa altro che proporsi di abbandonare la scrittura per il cinema - e non fa altro, talvolta a distanza di poche righe, che rimangiarsi i propri propositi. I suoi primi libri, infatti, non ebbero il successo commerciale necessario a liberarlo dall'obbligo di scrivere per il cinema e l'autore, seppure al riparo da problemi finanziari, fu sempre tormentato dal senso di colpa e dal dubbio di aver sprecato parte del proprio talento per mancanza di coraggio.

La corrispondenza ci permette anche di gettare uno sguardo nell'officina dello scrittore - in perenne fermento, nel caso di Fante, con progetti varati e abbandonati nel giro di giorni o settimane e altri, invece, destinati a tormentarlo per anni, come il romanzo Pater Doloroso , ispirato alla figura del padre e mai portato a termine; o il romanzo sui filippini della California, destinato a trascinarsi senza mai approdare a nulla di soddisfacente perché, evidentemente, troppo lontano dal perimetro tematico dello scrittore italo-americano. Non esistevano, per Fante, scelte semplici - a un facile successo poteva far rapidamente seguito un truce fallimento. Di qui, forse, quell'umor nero ricorrente che sfogava in famiglia, e che fece dire a uno dei suoi figli, intervistato in un documentario, che gli stati d'animo paterni in fondo oscillavano all'interno di una gamma abbastanza ristretta: da «leggermente incazzato» a «parecchio incazzato».

Il successo come scrittore di narrativa per arrivò relativamente tardi, con Full of Life (1952, in Italia edito da Fazi e Einaudi) quando Fante già aveva quattro figli, e una passione smodata per il golf e il gioco d'azzardo, e quando ormai passava lunghi periodi senza scrivere una riga di narrativa. Risalgono a quel periodo però le lettere più belle e vivaci: quelle scritte durante il viaggio in Italia del '57, tutte animate da uno stupore inconfondibilmente americano per l'arcana, brulicante vitalità di popolazioni che gli apparivano al tempo stesso miserabili e ricchissime. «Persino il contadino più infimo in Italia è in un certo modo nato a una cultura e a una vita civilizzata che noi non conosciamo. (…) Un giorno ti racconterò di questo viaggio, della condizione miserabile dello scrittore italiano, della ridicola adorazione degli italiani per qualsiasi cosa sia su celluloide…».

Seguirono gli anni terribili del diabete, della cecità, dell'amputazione di ambedue le gambe - durante i quali

però Fante tornò con entusiasmo alla narrativa, dettando alla moglie Joyce i suoi ultimi romanzi. Non smise mai, neppure nell'oscurità e nell'immobilità di quelle giornate, di amare la sua vita e quella dei suoi personaggi.

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