L'epopea di Gonzalo Guerrero: il conquistador diventato Maya

Salpò dalla Spagna per trovare fortuna nelle Americhe, ma si trovò schiavo del popolo che i conquistadores avevano soggiogato: per questo divenne uno di loro, difendendoli dai "bianchi" come lui

L'epopea di Gonzalo Guerrero: il conquistador diventato Maya

Nel regno di Castiglia, da dove era partito insieme ai soldati di ventura, agli esploratori e ai cadetti che in nome di Dio e del re sognavano di conquistare terre e potere, venne soprannomitato "il Rinnegato". Perché Gonzalo Guerrero, spogliatosi di ogni armatura e abito che gli potesse ricordare il vecchio mondo, nel Nuovo Mondo tagliava la gola ai conquistadores che volevano imporsi sulle civiltà mesoamericane. Come quella dei Maya: che lo resero schiavo e poi "capo", consegnandolo alla storia come una leggenda.

Nato in Andalusia approssimativamente nell'ottava decade del XV secolo, quando Cristoforo Colombo scopre l'America, è arruolato come archibugiere nelle truppe comandate dal Gran Capitano Gonzalo Fernández di Cordova che per conto dei regnanti cattolici muovono alla conquista di Granada. Dopo aver cercato e trovato battaglia a Napoli, altro campo dove gli spagnoli si espandevano, sceglie - come molti - la via di oltre oceano, per raggiungere quel Nuovo Mondo che promette agli avventurieri europei enormi fortune e ricchezze. Terre che possono essere conquistate con la lama di spade e alabarde, a spese degli indigeni che non hanno ancora mai veduto con i loro occhi uomini vestiti di ferro. Uomini che possiedono armi capaci di sputare "fuoco" e cavalcano animali possenti con tanta sintonia da sembrare una bestia sola.

Si imbarca così, nel 1511, su una caravella armata da Pedro di Alvarado diretto in Sud America, quando una violenta tempesta si abbatte sulla spedizione mentre era a largo dei Caraibi. La burrasca fa colare a picco il vascello, lasciando in vita appena 20 anime che, riparate su una scialuppa, patiscono un calvario di oltre due settimane alla deriva, trascorse a sfamarsi con la carne dei cadaveri e a idratarsi bevendo la propria urina e il sangue dei morti.

La maggior parte di loro moriranno di stenti prima ancora di raggiungere le coste dello Yucatan, dove quei naufraghi provati troveranno ad attenderli gli indigeni. I Cocomes (così si chiamava la dinastia Maya locale) li fanno prigionieri e li chiudono in gabbie di minuscole dimensioni per nutrirli come oche all'ingrasso e poi sacrificarli cibandosi di loro in opulenti banchetti per onorare gli dei. Solo Guerrero e Gerónimo de Aguilar rimangono in vita e, gelati nel sangue all'idea del macabro epilogo delle loro vite - essere sgozzati e mangiati ancora tiepidi da quegli uomini nudi, con i volti disegnati, che indossano vistosi copricapi di piume - decidono di fuggire nella giungla. Sarà una libertà fugace, dato che verranno catturati da un'altra tribù, quella degli Xiues Tutul, che li offrono come schiavi al sacerdote della città-stato di Mani.

Sarà proprio la lotta fratricida che vede i Cocomes e gli Xiues Tutul a riscattare la vita dei due conquistadores. Notati per le loro qualità guerresche, vengono liberati e nominati consiglieri di guerra a servizio del capo tribù. Attraverso la strategia della "falange macedone", che rese conquistatore ineguagliabile nella storia Alessandro Magno, Gonzalo Guerrero si guadagna il plauso dei suoi padroni, battaglia dopo battaglia. Messo da parte l'elmo morione e spogliatosi della corazza, si presta alle mutilazioni tribali e alla pratica del tatuaggi rituali dei Maya. Diventando di fatto uno di loro. Sposa la principessa Zazil Há e ha una prole numerosa. Decide addirittura di sacrificare la sua primogenita agli dei. Rinnegando la cristianità e l’unico dio per cui i suoi fratelli spagnoli si erano immolati cacciando i musulmani dall’Andalusia al fianco di San Giacomo detto "Santiago Matamoros", e nel nome del quale erano poi partiti alla volta delle Americhe.

Trascorrerà quasi un decennio prima che il nuovo Gonzalo, il conquistadores pagano, debba trovare sulla sua strada un uomo vestito di ferro come lo era lui quando era partito dalla Spagna. Si tratta degli emissari di Hernán Cortés che hanno ricevuto notizia di “uomini bianchi dalle lunghe barbe che vivevano tra gli indigeni”, e che pensando a dei naufraghi, vogliono trarli in salvo. Entrati contatto con De Aguilar, gli propongono di riunirsi ai loro compatrioti per tornare in Spagna al termine della spedizione. Ma Guerrero non è di queste intenzioni. Tacciato di eresia, considerato un traditore apostata e un rinnegato - ma soprattutto un avversario "pericoloso", data la sua conoscenza delle strategia di guerra adottare dai conquistatori spagnoli - viene braccato senza successo degli uomini di Cortés. Ma gli spagnoli trovano un nemico agguerrito: un condottiero che conosce le tattiche degli spagnoli ma combatte nudo e con le orecchie bucate ai lobi come vuole la sua "casta". Un'anomalia del sistema che va cancellata.

Una spedizione comandata dal capitano Davila nel 1531 si spingerà fino a Chetumal - dove si suppone la "tana" del "rinnegato" Guerrero - per cercare il traditore. Ma non raggiunge alcun risultato: lì non era né Guerrero, né le miniere d'oro che interessano a Davila: molto più del traditore che andava in qualche modo redento. Tra le rovine della città abbandonata vengono trovati e catturati alcuni indios che ingannano gli spagnoli affermando che l'uomo che veniva dal "vecchio mondo" ma che ha deciso di combattere con loro, era morto per cause naturali. Ciò è sufficiente per mettere fine alla "caccia" al rinnegato, che invece è vivo e vegeto, e continua a combattere per il suo nuovo popolo contro gli uomini che vengono dal mare come lui.

Questo almeno fino a che una freccia scoccata dalla balestra di un soldato agli ordini del capitano Lorenzo di Godoy non lo colpisce all'ombelico. Attraversandolo da fianco a fianco mentre conduce in battaglia i suoi fedeli guerrieri.

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