Le memorie di Hitchens Ovvero l’arte di essere cattivo e senza padroni

È stato un intellettuale di sinistra ma anti totalitario, sin dagli anni Sessanta. Ecco perché, a differenza di molti italiani, ha infranto gli steccati ideologici

Le memorie di Hitchens Ovvero l’arte di essere cattivo e senza padroni

In Italia ci sarà anche la libertà di stampa, ma stringi stringi manca la libertà di pensiero. Insomma tra i tanti «impegnati» scarseggiano scrittori o intellettuali capaci di andare oltre il manicheismo degli schieramenti, e da noi è sempre stato così, o di qua o di là: o guelfi o ghibellini, o fascisti o antifascisti, o berlusconiani o antiberlusconiani, o montiani o grillini, o mangi la minestra o salti la finestra.
È quanto viene da pensare, alla fine, leggendo le memorie di Christopher Hitchens (Hitch 22. Le mie memorie, Einaudi, pagg. 552, euro 21), morto di un cancro terribile lo scorso dicembre. Hitch, come amava farsi chiamare, era politicamente un democratico, anzi è stato per lungo tempo un marxista, ma tra le sue prime battaglie libertarie ha denunciato ferocemente il regime di Fidel: fu tra i primi a andare a Cuba e tra i primi compagni a essere accusato di posizioni «controrivoluzionarie», cominciando con il rompere le prime amicizie.
Tra i maggiori avversari di Bill Clinton, è stato anche antibushiano convinto ma difendendo l’intervento di Bush contro Iraq e Afghanistan, in nome dell’antifascismo, perché tanto il regime di Saddam quanto i talebani per Hitch erano nazisti da combattere senza mezzi termini e con molti mezzi militari, senza troppi giri di parole, e senza se e senza ma, che da noi invece era uno slogan cretino dei pacifisti. «Io capii oscuramente allora che questo tipo di “sinistra” postmoderna, in qualche modo alleata all’Islam politico, era qualcosa di nuovo, se non proprio la Nuova Sinistra». Non per altro negli appassionati coccodrilli italiani sui giornali di sinistra si sono dimenticati proprio del suo appoggio incondizionato alla lotta contro l’integralismo islamico.
È stato un tenace avversario della religione tout court, come, sul fronte scientifico, il suo amico Richard Dawkins, che però al contrario di Hitch era allineato con i democratici nel demonizzare l’attacco a Saddam. Hitch spaccava gli schieramenti nei quali tutto mondo e paese, dove la destra è antireligiosa quando deve essere anti-islamica e la sinistra quando deve fronteggiare le “ingerenze cattoliche”. Hitch invece si batteva tanto contro i talebani quanto contro il papa quanto contro Madre Teresa, sulla quale fra l’altro ha anche scritto un libro bellissimo, La posizione della missionaria, che in Italia fu edito da minimum fax e poi ritirato e fatto sparire per le proteste dei librai.
Non gli sfuggiva che il multiculturalismo è una cosa bella purché non diventi uniculturalismo. Così litigava con molti amici, come è inevitabile quando si hanno delle idee tanto accese e non incasellabili. A cominciare da Salman Rushdie che, dopo la fatwa, stremato dalle polemiche e per la sua sicurezza, firma un orribile dietro-front dal titolo emblematico Why I have embraced Islam («Fu uno dei peggiori risvegli della mia vita», scrive Hitch). Per fortuna Salman cambierà idea, e anni dopo scriverà sotto quell’articolo «No! Aaargh!». Nel frattempo Hitch litigherà con un altro carissimo amico, Edward Said, sul conflitto arabo-palestinese, per farla breve perché Said era troppo filopalestinese. Ma quando l’amato Martin Amis lo porta a incontrare Saul Bellow chiedendogli di non essere polemico, Hitch è costretto a essere sgradevole per difendere l’amico Said dalle accuse di Bellow, perché erano troppo filo-israeliane. In compenso Said gli darà del razzista e Hitch non andrà al suo funerale, perché la vita intellettuale, quando è seria, è complicata.
Era talmente noto per la sua tenacia nelle battaglie difficili che un giorno Hitch risponde al telefono e dall’altra parte una voce dice: «Sono Thomas Pynchon», e non era uno scherzo. Pynchon chiedeva aiuto a Hitch per impedire la distruzione di libro scnadaloso di uno scrittore omosessuale, Larry Kramer, bloccato alla dogana dai funzionari britannici. Hitch ci si butterà a capofitto, e non che fosse ben voluto dal governo britannico: Margaret Thatcher lo farà piegare davanti a tutti per sculacciarlo con un giornale, e Hitch sarà così spiritoso da starci. In compenso Tom Wolfe gli dà dell’arrivista, Hitch gli risponde dandogli del reazionario, i due non furono mai amici e festa finita.
A proposito di feste gli amici di Hitch erano “una piccola bohème”, l’inseparabile Martin Amis, Ian McEwan, James Fenton, e ci si divertiva molto, non so immaginare un analogo in Italia dove si può solo morire di noia o di Premio Strega. Intorno a Hitch si svolgevano incontri appassionati, goliardici e serissimi. Una volta agli invitati venne chiesto di parodiare un paragrafo di Graham Greene e partecipò anche Graham Greene, arrivando terzo. Oppure poteva capitarti di incontrare il caricaturista libertino Mark Boxer che ti insegnava come «il colmo della maleducazione è andare a letto con qualcuno meno di tre volte». Mentre Gore Vidal insegnò a Hitch che non si dovrebbe mai perdere occasione di fare sesso o di apparire in televisione.
Infine Hitch aveva le idee chiare su cosa è la vita e sul cosa è la morte e non si nascondeva la malinconica verità. A nessuno di noi, per esempio, piace l’idea di morire.

«Non amo l’idea che un giorno sarò toccato sulla spalla e informato che la festa è finita, bensì che con ogni probabilità la festa continua, ma da quel momento in avanti in mia assenza». È vero, la festa continua, ma sapessi quanto ci manchi, Hitch.

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