Nel 1984, dopo la morte di John Betjeman, Ted Hughes venne nominato «Poeta laureato» della Corona britannica e a succedergli, alla sua morte, fu un accademico e poeta londinese, classe 1952, di nome Andrew Motion. Che nella vita ha avuto fortune straordinarie, sempre legate alla poesia. È stato un allievo di W. H. Auden. E poi, insegnando letteratura all'Università di Hull, ha conosciuto Philip Larkin, di cui è divenuto prima amico e poi esecutore testamentario per i diritti letterari, infine biografo ufficiale. E poi ancora, nel 1999, soffiò il titolo di «Laureato» a un poeta che aveva vinto il Nobel da qualche anno, Séamus Heaney, e che si era offerto per il posto. E poi ancora ha avuto la fortuna di essere ascoltato quando chiese di rompere con la tradizione e non rimanere per tutta la vita in carica, ma soltanto per dieci anni.
Perché Motion ha tenuto nascosto dentro di sé un segreto, aveva bisogno di tempo per realizzarlo. Un sogno straordinario, che nulla aveva a che fare con la poesia: scrivere il seguito di una delle avventure letterarie più note, amate e vendute del mondo, L'isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson. Affascinante inglese dall'eloquio squisito e dalla voce incantevole, Motion non solo ce l'ha fatta a sfornare il romanzo - Ritorno all'Isola del Tesoro (appena uscito per Rizzoli, traduzione di Michele Mari, pagg. 432, euro 17) - ma l'impresa gli è riuscita egregiamente. Il libro, di cui Sky ha già acquisito i diritti per una serie televisiva, è puro godimento, vero ritorno a un passo narrativo che credevamo perduto, il passo dei classici che sanno condurti nei luoghi fantastici nella cui esistenza, da lettore, hai sempre sperato. Jim, figlio di Jim Hawkins il mozzo, ora locandiere, e Natty, figlia di Long John Silver, il cuoco pirata, ora gentiluomo, tornano all'Isola, a cercare il grosso dell'argento. Con una mappa, naturalmente.
Quando le è venuta l'idea?
«Quando ho letto il libro di Stevenson per la prima volta. Quarant'anni fa. Le finestre che l'autore lascia aperte sono tali e tante, per chi voglia proseguire il cammino dei suoi eroi. La prima e principale sono i tre naufraghi che lascia sull'Isola: che ne è di loro? Nel mio romanzo, vengono raggiunti da cinquanta schiavi con le loro guardie, a cui i tre naufraghi impongono un regime di terrore».
Dopo quarant'anni, come mai proprio adesso?
«Avevo terminato il mio incarico come poeta laureato. Mi piaceva, ma mi teneva costantemente occupato: archivi, apparizioni in pubblico, interviste, tv, scuole. Poi tutto è finito. E nel 2006 è morto mio padre. Mi sono trovato pieno di libertà. La mia vita era cambiata».
Il momento ideale per cominciare un'avventura.
«Questo romanzo è stata la più grande avventura della mia vita. Non ricordo di essermi mai divertito così tanto prima. È un libro che parla di cose serie: genitori e figli, avidità, crescita, educazione sentimentale. Ma è soprattutto puro divertimento e spero che il lettore ci trovi questo».
Come ha deciso di affrontare il sequel di un classico?
«Il mondo è pieno di pessimi sequel. Il motivo? Vanno troppo vicini all'originale, nello spazio e nel tempo. Quelli che hanno successo invece rivedono il tutto con un'angolazione nuova».
Il suo Ritorno avviene quarant'anni dopo la fine dell'Isola di Stevenson...
«Infatti: siamo nel 1802 e tutto è cambiato. La morale non è più imposta dalla religione. L'avvento della democrazia. L'illuminismo. Quello di Stevenson in confronto è il vecchio mondo».
Ogni riferimento ai giorni nostri è puramente casuale?
«Per niente. Con questo buco temporale volevo far sentire ai lettori che quel che conta è il qui ed ora, l'affinità che ogni storia deve avere con la contemporaneità. La guerra tra naufraghi sull'isola è terribilmente moderna, così come il confronto-scontro con i genitori e con il passato e i danni che ne derivano».
Qual è il segreto dell'Isola del tesoro?
«Ce ne sono tre: prima di tutto è una storia stupefacente. E poi, la fascinazione imposta dai pirati è immortale, vedi i film con Johnny Depp, ispirati a Stevenson. Inoltre, il tormentato rapporto padri e figli, incentrato su Long John Silver, è un topos senza tempo».
Ma non è soltanto un libro per ragazzi?
«Non esistono libri per ragazzi, per bambini o per adulti. I classici di Philip Pullman o lo stesso Harry Potter sono capolavori, soprattutto Pullman, che amo molto, perché tutti sono in grado di capire quello che viene raccontato, qualsiasi età abbiano. Solo che gli adulti vedono e capiscono cose, in queste storie, che i ragazzi non capiscono. E viceversa».
La critica ha ammirato soprattutto le sue invenzioni linguistiche e la sua capacità di rimanere fedele a Stevenson pur con peculiarità tutte sue.
«Il mio editore ha trovato la formula migliore: sostiene che sono il ventriloquo di Stevenson. Ma la verità è che ho rispettato la sua voce, ma ne ho soprattutto cercata una mia, Volevo essere indipendente. Il mio romanzo è narrato con il linguaggio del primo periodo vittoriano: più complicato del linguaggio di Stevenson, soprattutto più letterario. Il linguaggio a cui io stesso sono stato educato. Non so come sia stato possibile tradurlo in altre lingue, specialmente l'italiano, cui sono molto affezionato».
Conosce lo scrittore Michele Mari, il suo traduttore in Italia?
«No...»
È un esperto di dialetti.
«Ma allora è perfetto».
Nelle ultime pagine del libro, Jim decide di partire per l'America: che cosa dobbiamo aspettarci?
«Sto scrivendo il sequel del mio Ritorno. Sarà un thriller western».
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