La voce dei grandi narratori è sempre la stessa. È una sola voce, che è anche la vera voce del mondo. Sempre sporcata da condizioni contingenti, mentalità, politica, religione, mode e modelli culturali, ma sempre uguale in ciò che sporco non è. Le differenze le fa il sudiciume della storia, ma lei - lei - è una. Non parlo degli scrittori, ogni scrittore è scrittore a modo suo, come le famiglie infelici. Gli scrittori parlano di felicità e infelicità al modo degli scrittori, che è un modo infelice. Essere uno scrittore è una forma dell'infelicità. E ogni scrittore, affaticato dalla propria singolarità, vorrebbe avere un momento, anche uno soltanto, di pura felicità: anonima, sempre uguale come le famiglie felici (secondo Tolstoj), senza singolarità. Una felicità che produce lo stesso rumore dell'universo. La felicità non dello scrittore, ma del narratore.
La storia ci racconta poi che questi uomini, che sorgono (sia pure raramente) un po' dappertutto nel tempo e nello spazio, questi uomini capaci di guardare la storia con un'innocenza nativa che non può essere prodotta essa stessa dalla storia, ebbene questi uomini universali sono i più vicini alla terra, al racconto orale, al racconto popolare. I grandi narratori, quale che sia la loro origine, conoscono e frequentano più degli altri questo confine. I grandi narratori possono essere i testimoni di atrocità accadute a loro stessi, ma i loro racconti sembrano sempre i resoconti di un osservatore esterno, implacabilmente oggettivo, sempre lo stesso.
Il soggettivismo, l'intellettualismo hanno cercato di uccidere tutto questo, ma sotto i cavoli continuano a nascere uomini così. E uno di loro è senza dubbio il cinese Mo Yan, di cui Einaudi pubblica ora Le rane (pagg. 390, euro 20, traduzione di Patrizia Liberati). Premio Nobel 2012, Mo Yan è per tutti i lettori l'autore di quel capolavoro che è Sorgo rosso. Le rane non è forse all'altezza di Sorgo rosso, e nemmeno di Grande seno, fianchi larghi. Ma è sicuramente l'opera di un gigante, e anche se qui le connessioni appaiono forse meno inesorabili che altrove, leggerlo è sempre un piacere inestimabile. Nel suo inferno c'è sempre una manciata di paradiso. C'è, innanzitutto, una grande storia (presa per sé, forse la sua più bella): quella di una donna, Wang Xin, la quale, iniziata da giovanissima alla medicina e all'arte ostetrica in particolare, si occupa per tutta la vita di nascite. È la grande metafora della Cina, della sua rapida crescita demografica e dei problemi a essa inerenti.
L'esistenza di un'ideologia affermatasi nel Paese mediante la figura di un padre - quale fu Mao, unico (discutibile finché si vuole ma unico) padre della nazione cinese - e incarnata dal potere assoluto del Partito, fa da sfondo alle vicende di Wang Xin, dell'ascesa del suo prestigio prima ancora dell'avvento di Mao, del fidanzamento con un pilota poi passato al nemico, dei diecimila bambini che aiutò a nascere, e della successiva politica governativa per limitare le nascite, che la donna abbraccia con zelo, praticando oltre duemila aborti. Ma tutta la storia di questa donna si concentra in una notte degli anni Novanta, quando, passando accanto a uno stagno, Wang Xin riconosce nel gracidio possente delle rane le voci urlanti dei bambini ai quali ella impedì di nascere. È il momento cruciale di tutta la sua vita. Sposata da molti anni a un fabbricante di statuine, negli anni successivi, ormai vecchia, chiede al marito di fabbricare i simulacri di tutti i bambini non nati. Li ricorda uno a uno, ricorda le loro famiglie, e nemmeno i particolari più piccoli vanno perduti. È un piccolo esercito di non-nati, sul modello dell'esercito di terracotta di Xi'an, o forse della Strage degli Innocenti. Un'immagine di pura desolazione che non porterà Wang Xin a espiare se non per quella piccola parte di espiazione che attiene alle nostre possibilità (il resto è di Dio, o della Notte Eterna) che è la capacità di tenere aperte le ferite. Forse non saremo perdonati, però si può cercare di non dimenticare. È la nostra vera preghiera laica.
I grandi narratori non si immedesimano con ciò che raccontano. Non provano simpatia o antipatia. In fondo, è tutta una questione di scambio. Un crimine, un bacio, un personaggio eroico o ridicolo sono cose che lo scrittore compra. E il denaro necessario non è la tecnica narrativa (ha «tecnica» Mo Yan? Che importa...) ma la lingua di cui si dispone. La lingua è il capitale vero.
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