"Né scrittore né intellettuale. Sono solo uno che scrive"

Giorgio Fontana, giovane trionfatore del Campiello, vive in provincia , lavora in un'agenzia di software ed è "un uomo felice"

"Né scrittore né intellettuale. Sono solo uno che scrive"

da Venezia

Giovane, carino e occupato: non si sa da quale Pianeta di Scrittori Italiani sia atterrato Giorgio Fontana, ma dopo averlo conosciuto in occasione della sua vittoria schiacciante al Campiello 2014 (ha stracciato i mostri sacri Michele Mari e Mauro Corona) con Morte di un uomo felice (Sellerio), sappiamo che questo pianeta esiste. Nato a Saronno, laureato in Filosofia: sarà il solito intellettuale di provincia nevrotico e perfettino? No: dopo la laurea ha vissuto in Francia, in Quebec, a Dublino e a fare il tifo per lui alla Fenice c'era una claque di baldi giovinastri. Per di più, la storia con cui ha conquistato la Giuria popolare non ha nulla di ombelicale e si snoda attorno a due perni del '900 nostrano: la Resistenza e gli anni di piombo. Il suo eroe, Giacomo Colnaghi, è un magistrato in prima linea contro il terrorismo rosso. La sua “spalla”, si fa per dire, il padre Ernesto, partigiano ucciso dai fascisti a 23 anni.

«Il Campiello per me è uno sprone a non montarsi la testa»: in tempi in cui la popolarità è tutto, la sua sembra una presa in giro. «Non voglio sembrare un pazzo mistico. Ovviamente uno che lavora per tanto tempo a un romanzo - per questo ci ho messo quasi tre anni - ci tiene tantissimo e, se pensa di meritare, non vuole prendersi delle picche. Però tutto il circo che ci sta attorno, la sovraesposizione mediatica, i rapporti di potere conquistati attraverso i libri per mettersi in cattedra o nei panni del maître à penser , li ho sempre trovati agghiaccianti. La felicità sta nel trovare la frase giusta e nel vedere i lettori contenti. Poi non mi piace stare in mezzo al caos, alla Fenice ero visibilmente scosso».

Meno male che c'era la cravatta del nonno.

«L'ho indossata come omaggio a chi mi ha raccontato parte delle storie di resistenza nelle fabbriche contenute in questo romanzo. Una delle quali, quella del ragazzo nell'osteria del saronnese al quale sparano ma riesce a fuggire, è successa a lui».

Perché ha scelto la Resistenza?

«È il momento più alto della storia italiana, la carta d'identità della nostra Repubblica. E mi premeva raccontare il lavoro nelle retrovie, nelle fabbriche: scioperi, picchettaggi, sabotaggi, su cui ho fatto molta ricerca».

Anche gli anni di piombo sono un periodo che lei non ha vissuto.

«Quella viene da Colnaghi, che appariva già nel romanzo precedente, Per legge superiore . Non riuscivo a togliermelo dalla testa: un personaggio lacerato, complesso, ma carico di simpatia. Mi sono ritrovato a scrivere su una fetta d'Italia per cui non nutrivo un particolare interesse. E per delinearlo mi sono ispirato a Emilio Alessandrini e Guido Galli: Colnaghi sarebbe stato un buon terzo per loro due».

Se Colnaghi agisse oggi, che farebbe?

«Forse ancora il magistrato. O forse, meglio, il parroco di Saronno».

Si sente uno scrittore «impegnato»?

«Il mio pensiero politico e il mio essere scrittore sono due cose distinte. Mi sento libero di creare personaggi che non c'entrano con le mie idee. Credo nei movimenti che partono dal basso, nelle aggregazioni sociali, nelle cooperative lavorative che cercano di erodere il meccanismo per cui tutto è ridotto a merce di scambio».

E la gavetta continua.

«Esatto. Domattina sarò in ufficio alle otto e mezza, come sempre. Lavoro da quattro anni in un'agenzia di software e mi occupo di comunicazione, sono un content manager multilingua. La sera e nei weekend scrivo. Non posso mollare e magari pensare che in due anni potrei ritrovarmi senza niente in tasca. E poi lavorare ti tiene con i piedi per terra, eviti di dire: “Faccio lo scrittore”».

Dopo la vittoria, la sua opinione sui premi letterari?

«Posso parlare solo per il Campiello che - la mia vittoria lo conferma - è trasparente e lascia i lettori sovrani. Poi per lo Sciascia, per il Chianti, a cui ho partecipato. Generalizzare è inutile».

Al Campiello tornerebbe tra qualche anno?

«Di corsa».

E se invece le

proponessero lo Strega?

«Penso proprio di no. Quello è un premio che non mi piace. Perché non contano i lettori e perché la guerra tra editori non mi interessa. Nemmeno al mio editore interessa. Ci manteniamo integri».

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