Possiamo dire che il solito Borges, a lungo andare, diventa un po' palloso? Tutti diventano pallosi, a lungo andare, persino i classici e i neo-classici figli del Novecento (secolo ormai classico, per colpa dello scorrere implacabile del tempo). Borges è un classico, cioè ha messo involontariamente il cappello su alcune parole-mondo. Se, parlando di letteratura, dici «labirinto», «criollismo», «saga», «aleph», «finzione», significa che stai parlando di lui. Il suo essere cieco ti illumina a giorno una zoologia fantastica di concetti e di epoche e di personaggi reali sussunti nell'immaginazione, quindi promossi al rango di prototipi. Chiunque, dopo di lui, ne voglia trattare, con lui deve confrontarsi. Tutto ciò, rischia di «impallarlo», di porsi davanti a lui mentre le telecamere del lettore lo riprendono. Di «impallarlo» e di renderlo, appunto, un po' palloso.
Il modo migliore per ripulire il campo visivo fra noi e Borges sarebbe usare la lente di chi lo conobbe intimamente. Chi scrive ebbe, circa un anno fa, questo privilegio, per un paio d'ore, intervistando per questo giornale María Kodama, l'allieva-ammiratrice-segretaria-interprete-compagna della sua vita. Poi María Kodama tornò in Argentina, e chi scrive tornò nell'anonima moltitudine dei frequentatori del solito Borges... Ma per fortuna a questa moltitudine si prospetta un'altra possibilità. Leggere le due lunghe interviste che Borges concesse alla televisione spagnola l'8 settembre 1976 e il 23 aprile 1980. In entrambi i casi fu il giornalista Joaquín Soler Serrano, scomparso nel settembre 2010, a colloquiare con il grande scrittore nella trasmissione A fondo. Lì, nelle due... talk-comedy borgesiane, proposte ora dalla casa editrice Mimesis a cura di Tommaso Menegazzi (Jorge Luis Borges. Cartografia di un destino, pagg. 116, euro 12), non troviamo il solito Borges, ma l'altro Borges.
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